2018 -  Le mie nuove Recensioni

                       

                                       INDICE

 

 

1)Premessa

2)Leily (anni 12), Gruppo Gold La prima avventura            

3) Claudio Papini, Il segretario & il suo doppio-

(Niccolò Machiavelli & Cesare Borgia)

4) Giulio Vignoli, Repubblica italiana- Dai brogli e dal colpo di stato dal 1946 ai giorni nostri

- Digressione di M.L. Bressani sul libro di Hayward Storia della Casa di Savoia,1955,dono per me nel 1961-.

5) Ricordo del prof. Enrico Turolla

6) Emilio e Maria Antonietta Bigini, Le più brutte storie

7) Salvatore Satta, Mia indissolubile Compagna

8) Salvatore Satta, Padrigali mattutini

9) Giovanni Meriana, Sono partiti tutti- Ultimi giorni di Reneusi e altre storie

10) Giglio Reduzzi, E’ arrivata la svolta

                            - Il Paese che vorrei

11)Giovanni Ferrero, Chicco, Gli “Zoccoletti”- Ricordi di Casa Ferrero (1851/2001)

12) Maria Clotilde Giuliani – Lettera per l’autore sul libro

13) Fabio Capocaccia – Lettera per l’autore sul libro

14) Silvio Vignetta, Una lunga vita

15) Grazia Zerbi, L’affresco

16) Grazia Zerbi, Agnese e i continenti

17) Laura Boschian, moglie di Salvatore Satta: Diari di una triestina

18) Maria Rosaria Dominis, Gli Oleandri di Dubrovnik

19) Cesare Quadri, La Senaide

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                               Premessa

 

Quando scrivo una recensione sono convinta che quanto è detto nel libro sia da contestualizzare nel tempo in cui si verificò, ammesso che l’autore non l’abbia già fatto e talvolta in modo da sorprenderci.

Quanto s’impara dai libri...!

Ecco quindi questa nuova serie di recensioni che metto su questo mio Sito non collaborando più a giornali dal giugno del 2013. (Chi vuole può vedere le precedenti a Recensioni e non solo  (gli si aprono 25 pagine tematiche con

 articoli tutti pubblicati)  su http://mlbressani.wixsite.com/marialuisabressani)

Queste mie nuove, del 2018, riguardano libri ricevuti in dono da miei estimatori (lo spero) nello scorso Natale e non avendo un giornale su cui collocarle le ho messe su questo nuovo Sito, nato principalmente a tal fine. Dai libri ricevuti ho imparato sentendomi più in amicizia con gli autori, pur restando il diritto di critica.

Preciso, poiché c’è stato un tempo (anni settanta) in cui il critico usava le recensioni come un palcoscenico personale e metteva in secondo piano l’autore, che cerco invece di dar risalto a ciò che pensa e al perché ha scritto il libro.

 

Una critica a me stessa: sono recensioni lunghe, ma sai che libertà a non esser condizionata dal numero di righe come quando si scrive sui giornali.

 

Un’avvertenza: i miei commenti tra una recensione e l’altra saranno da me scritti in rosso (così chi preferisce li può saltare per andare alla recensione successiva oppure li vedrà meglio se desidera leggerli).

 

 

                                  

 

 

 

 

                                                                             Gruppo Gold

                                                            La prima avventura

                                                              di Leily  (anni 12)       

 

 

             

                                                                     

  

            

 

Questo delizioso primo libro è stato scritto da una ragazzina di 12 anni (con la collaborazione del papà).

La dedica è: “alla mia mamma, che era una grande lettrice” e conclude con un “Buona lettura!”

Sono 56 agili pagine (lo troverete anche online) con qualche figura come la seguente dove Leily ha designato i protagonisti maschili della storia.

    

                                                             

Il gruppo d’amici, costituito in parità dai tre ragazzi sopra disegnati e da tre ragazze più due cani Gen e Hallie, è alla ricerca di un tesoro come succede proprio nei libri che leggevamo quando avevamo la loro età. Non manca la casa del tesoro,  ormai in abbandono dei coniugi Gold  che vi avevano abitato e, guarda caso, erano stati scrittori di libri d’avventure con tema comune “tesori da ritrovare”. Scrittori diventati famosi al loro tempo come fa fede un articolo di giornale rinvenuto dai piccoli esploratori.

Il gruppo di ragazzini prende il nome dei coniugi Gold (e quale sarebbe più appropriato per la ricerca di un tesoro?), come altrettanto interessanti sono i nomi dei loro accompagnatori: il cane Gen, diminutivo di Generale, e la cagnolina Hallie cui la padroncina ha voluto dare il nome della sua sorellina gemella, adottata da un’altra famiglia poco prima di lei.

La storia inizia in quel luogo incantato e noto  per le vacanze che è la nostra isola d’Elba ma si sposta dal Mar Mediterraneo all’Oceano Atlantico a Capo Verde dove i coniugi Gold avevano avuto una casa. Questo accade quando  i genitori vengono convinti dai ragazzi a spostarsi là per l’idea sempre più plausibile per tutti loro, in base a ritrovamenti vari, che un tesoro esista davvero.

Nel dipanarsi della storia, senza fronzoli, con un linguaggio essenziale, non mancano infortuni vari dalla ragazzina che si sloga una caviglia al ragazzino che nella traversata cade in mare dal catamarano.

Inserisco dal libro un disegno di Leily dove ha disegnato con precisione la rosa dei venti.

 

                                                  

 

Un aspetto di questo primo libro, incantevole nella sua freschezza, è la conoscenza di cose molto tecniche e attuali come la citazione di GPS, telefonini, metal detector, trasmettitore nautico e non manca la cassetta del pronto soccorso. Per questa posso immaginare ci sia stato  il contributo del papà per insegnarle che anche nella più semplice gita (e queste dei ragazzi sono state “gite” piuttosto avventurose) può accadere l’imprevisto per cui è meglio premunirsi con qualcosa che possa servire ad un’immediata medicazione.

Non solo, c’è un importante elemento di educazione civica quando l’ipotesi di ritrovare il tesoro si fa sempre meno campata in aria e i ragazzi vengono avvertiti dai genitori che dovrà essere consegnato ai Carabinieri perché esso non appartiene a loro ma allo Stato. E sull’onda della nostra attualità c’è perfino il soccorso in mare ad un barcone di profughi.

Non mancano momenti di humour come quando, a Capo Verde, Amilcare uno dei tra ragazzi che non sa lo spagnolo ma per far colpo  cerca di parlarlo, aggiunge sempre una “s” finale alle parole. Perciò i compagni lo soprannominano Amilcares.

Non so immaginare se Leily in futuro ricorderà questo libro come un qualcosa di bello da lei portato a compimento quando si leggono libri che gli adulti hanno scritto per i ragazzi mentre lei ha saputo farne uno in prima persona. Per questo lo ricorderà volentieri pur se forse non continuerà più a scrivere. Però è proprio a questa età che nascono le “vocazioni” e può essere che la scrittura diventi per lei uno scopo. Potrà anche essere una scrittura scientifica, per divulgare e spiegare fatti scientifici ed invenzioni tecniche poiché si nota nel libro un suo interesse di questo genere. C’è soprattutto da parte di Leily un tratto della sua sensibilità, della sua acutezza di spirito, che le ha fatto cogliere come durante il sonno, attraverso i sogni, veniamo a dipanare con più chiarezza cose che ci sono successe durante il giorno ed a trovare qualche soluzione. Infatti è nel sonno che questi ragazzini capiscono meglio il significato di ciò che hanno vissuto o visto di giorno.

Nell’indice del libro il capitolo finale  s’intitola “Delusione” perché come in un giallo alla Agatha Christie questo svelerà se il tesoro esiste davvero o no. Non vi tolgo la suspense e invito a scaricare il libro online (mezzo moderno di comunicazione) perché le copie in carta sono state poche.

Anzi, mi sento onorata di averne ricevuta una con la dedica “con simpatia a Marisa”, che è il mio nome in famiglia.

E’ stato al momento della benedizione pasquale delle case che don Vincenzo, sacerdote della nostra parrocchia, cara al Cardinal Siri (un tempo ne ho anche scritto), arriva a compiere sempre dopo la festività. Ma questa benedizione è davvero un momento intenso perché si fa con la preghiera in comune sul pianerottolo. Questa volta a noi e alla nostra vicina di ballatoio Jole, da poco vedova, si sono aggiunti anche Leily e il suo papà scendendo dal piano di sopra. Non è da molto che sono venuti ad abitare qui e quando don Vicenzo ha precisato che Leily è così brava per merito non solo dell’educazione del suo papà ma anche della sua mamma, mancata di recente, Leily  ha abbassato il capo e i suoi occhi si sono fatti lontani e scuri di commozione profonda.

Sì la vita non è facile ma scrivere un libro è sempre una grande risorsa. E’ terapeutico anche se non vi si scrive nulla di ciò che ci riguarda: ci distrae e ci dà uno scopo finché non lo abbiamo portato a compimento. Come scrisse una grande scrittrice Natalia Ginzburg nel suo Le piccole virtù, per quel lavoro fatto bene si può stare in piedi la notte.

Auguri Leily per continuare a crescere come mamma ti vorrebbe.  

Grazie per questo dono che hai fatto a me in particolare ma a tutti coloro che avranno la fortuna di leggerti. Ti abbraccio forte come ho fatto una volta con una nipotina della tua età quando si volse verso di me scoppiando a piangere al funerale della sua mamma. Già sei anni da allora perché la vita continua e può riservare anche tante belle sorprese e gioie come vorrebbe per noi chi ci ha voluto bene e ci guarda dal cielo.

 

                            

 

 

 

 

                                                                   Cesare Borgia e Machiavelli

                                                Grandi italiani o antenati “scomodi”?

 

 

                                                        

                                                 Cesare Borgia                           (di Papini:Ritornare a Machiavelli)

 

 

                                                                 Il segretario e il suo doppio

                                               (Niccolò Machiavelli & Cesare Borgia)

                                                                di Claudio Papini

 

 

E’ libro complesso come complesso è il periodo storico che tratta, pur in una manciata d’anni dal 1492 al 1513 circa. Ma, come con una macchina del tempo, l’autore si sposta alla ricerca delle radici dei nostri mali “fin dall’antichità classica del sovversivismo giudaico-cristiano in funzione antimperiale” (esplicitato nella contrapposizione Gerusalemme/Roma) fino ai tempi della Riforma luterana. Ne nasce un grande affresco storico in cui l’indagine si concentra, in quattro capitoli con sempre nuovi arricchimenti, sulla vita di Alessandro VI (Rodrigo Borgia) e del figlio Cesare, nominato da lui cardinale a 18 anni.

Alessandro VI, Papa dal 1492 della scoperta del nuovo mondo da parte di Cristoforo Colombo, morì per veleno nel 1503. Già nipote di Papa Callisto III, era spagnolo, di cognome Borja, perciò detto dagli italiani Borgia. 

Cesare, divenuto Duca di Romagna, soprannominato il Valentino da quando Luigi XII re di Francia lo aveva investito della contea di Valentinois,  morì nel 1507.

Papa Alessandro VI era amante del lusso e del denaro, pensò ad accrescere il patrimonio della Chiesa in tutti i modi inclusa la simonia (quella dell’acquisto superata da quella delle vendite), ebbe molti figli cosa che nel costume dell’epoca non scandalizzava. Tra questi  Lucrezia, usata come “pregevole dono” a fini matrimoniali (per utilità di scambio), ma apprezzata dal padre che in un periodo di requie, tra un matrimonio e l’altro, la nominò “governatore” di Spoleto. La “leggenda nera” intorno ai Borgia, include Lucrezia, oggi riabilitata e che non avvelenò nessuno, ma in parte è una fake news del passato, costruita da avversari politici. Restano indubitabili i molti avvelenamenti perpetrati da Alessandro VI e soprattutto da Cesare. Alla nota 145 (sono 233 le note del libro con precisazioni molto interessanti) vi è una spiegazione del veleno usato, forse polvere di cantaride ottenuta dall’essiccazione di piccoli scarabei: a piccole dosi dava effetto afrodisiaco, con più alte provocava lesioni interne che portavano a morte.

I personaggi di quel difficile tempo storico appaiono in chiaroscuro come in una saga o moderna soap Tv. Non a caso il primo atto di Alessandro VI Papa è grande: ristabilì la pubblica sicurezza e fece pagare gli stipendi. Da politico comprese che solo con la forza  poteva ripristinare lo Stato pontificio come prima dell’invasione del 1494 da parte di Carlo VIII di Francia e con Cesare compì un’opera di riorganizzazione e ristrutturazione con il fine di supremazia in Italia. Gli viene attribuita l’espressione “che il sovrano francese l’aveva conquistata con il gesso” perché gli bastava segnare sulla carta topografica una città italiana col gesso e questa senza opporsi gli apriva le porte.

In un panorama di staterelli italiani, dove Venezia era l’unica degna del nome di Stato, nasce la “fascinazione” di Machiavelli (difensore della libertà di Firenze, la sua città, di cui era segretario) per Cesare: “perché l’animo del guerriero era grande e l’intenzione alta”, perché nonostante la condotta criminale e lasciva “era uomo all’altezza dei propri sogni o per lo meno si sforza di esserlo”. Soprattutto perché “o Cesare o nessuno sarebbe stato capace di annientare il Papato, causa di tutti gli interventi e fonte di tutte le divisioni d’Italia”. Solo la militarizzazione dello Stato pontificio poteva attuare una laicizzazione dello Stato e la supremazia in Italia.

La militarizzazione avvenne grazie alle virtù da soldato di Cesare. Una dimostrazione della sua forza intrepida è in un episodio: quando in piazza S. Pietro, in uno spazio chiuso davanti ad una Basilica diversa dall’attuale, atterrò in stile corrida sei tori selvaggi.

Non solo quando morì Papa Alessandro, Cesare che era stato anche lui avvelenato sopravvisse, ma malato e lasciato tra due potentissimi eserciti nemici, ebbe una Romagna (il suo ducato) così fedele che lo aspettò per un mese. Non solo, quando Machiavelli va a trovare Cesare, ormai in prigione, lo trova circondato da fedelissimi amici.

Scrive Papini: “Non dovevano dispiacere la  risolutezza di Cesare nell’attuazione delle decisioni e la sua opportunistica ferocia di hidalgo a Machiavelli che da giovane a Firenze non aveva sopportato il temperamento dei Piagnoni e nemmeno l’arroganza degli Arrabbiati”. 

Per il fiorentino Cesare fu Il Principe (libro scritto nell’esilio di S. Canziano nel 1513, qualche anno dopo la sua morte e meditatamente non per impulso di eventi esterni).

Quanto alla parte nera del Valentino, numerosi gli assassini tra cui anche quello del fratello minore, duca Juan di Gandía, prediletto dal padre. Papini per queste “pulsioni”  come le definisce, accosta Cesare a Gilles de Rais compagno d’armi di Giovanna D’Arco, che nella guerra dei Cent’Anni le dimostrò “ben oltre la partecipazione alle operazioni militari” dimostrando la sua patologia.

Al Cesare politico, Machiavelli  per cui la politica, è “arte del possibile realisticamente intesa”, imputa un solo errore: essersi fidato di Papa Giulio II appoggiandone l’elezione. Giuliano della Rovere, nato ad Albisola di Savona, sotto lo scandaloso pontificato di Alessandro VI era stato per 10 anni esule da Roma. Da Papa promise al Valentino, già colpito da sorte avversa e rifugiatosi in Castel Sant’Angelo a Roma quindi (un problema in più questo per lo Stato pontificio), gli promise che lo avrebbe confermato “nella carica di gonfaloniere della Chiesa, capitano generale e  nel possesso dei suoi Stati”. Invece compí “una rete sottile” affinché i domini del Valentino tornassero al  controllo della Chiesa, abrogò il Ducato di Romagna come realtà politica e territoriale indipendente, fece imprigionare Cesare.

Per le luci ed ombre di tutti questi comprimari-protagonisti del libro Giulio II fu grande mecenate di Bramante, Raffaello, Michelangelo e fece leggi giuste. Tra le tante abolí i duelli e lo ius naufragii, cioè il diritto di spogliare i naufraghi (e quel barbaro diritto nell’Italia d’oggi, buonista ma anche affarista con le cooperative, si è trasformato in accoglienza “senza se o ma” dei migranti da non lasciar naufragare).

Dall’antico, proiettandosi nei problemi moderni, Papini non manca di stigmatizzare l’Italia dei differenti governi nazionali, “in particolare quelli ispirati da ideologie internazionaliste, dunque cristiano-cattoliche e tardo social-marxiste”, che ha portato da noi circa 6 milioni tra immigrati “comunitari” ed “extracomunitari”.

Il pregio del libro è ripercorre con chiara analisi critica quegli anni di un’Italia ancora in fieri, così travagliati tra nemici e alleanze con re stranieri che facevano a gara per accaparrarsi “il nostro giardino”, ma soprattutto è risalire alle radici lontane dei nostri mali.

Papini è cultore di  Daniel Massé, di cui ha ospitato diversi libri nella Collana “Amici del Libero Pensiero”  (www.amiciliberopensiero.it) che dirige per De Ferrari, l’Editore genovese con cui ha anche pubblicato questo suo.  Nel 2012 ha scritto su Daniel Massé e gli enigmi del cristianesimo e in sintonia con lui risale allo scontro antico tra Roma e Gerusalemme,  al conflitto  di Gerusalemme con diversi centri politico-religiosi di lingua araba, quindi tout court  al conflitto Oriente/Occidente. Osserva Papini che ai giorni nostri Italia e Israele sono due stati che fanno parte dell’Occidente a tutti gli effetti, però penso quanto sia tuttora “diffidente” la nostra Europa verso la realtà storica d’Israele e molto più propensa a capire i palestinesi specie dopo la decisione di Trump, giunta dopo la pubblicazione del libro, di decretarne Gerusalemme capitale.

Per la lunga Storia, narrata nel libro, è da ricordare che il 1498 (nel pieno del Pontificato di Alessandro VI) è anche l’anno in cui Gerolamo Savonarola, il “profeta disarmato” che di Firenze voleva fare la nuova Gerusalemme, è condannato al rogo. Quel titolo sarà da attribuire a Ginevra, ad opera di Calvino (però dopo il 1536 precisa l’autore). Ma esso risale al 1517 della nascita e diffondersi della Riforma, figlia d’Umanesimo-Rinascimento. Proprio la reazione a quel nostro importantissimo periodo storico, con il conseguente desiderio di restaurare una nuova Gerusalemme, è stato anche frutto dell’opera di Gerolamo Savonarola.

Di qui un nuovo ed assoluto bisogno di studiare la Storia.

Da    questo libro, che offre il piacere dell’intelligenza, si può pensare a voler ricreare per il nostro futuro, pur se il tempo sembra breve, una parola potente come Ri-nascimento (nuova nascita) o Ri-sorgimento (nuova resurrezione).                           

 

                       

 

                                                      UN'ANALISI DEL LIBRO DEL PROF. GIULIO VIGNOLI

                                      SULLE ORIGINI E LA STORIA DELLA REPUBBLICA ITALIANA

 

 

Repubblica Italiana. Dai brogli e dal Colpo di Stato del 1946 ai giorni nostri di Giulio VignoliRepubblica Italiana – Dai brogli e dal Colpo di Stato del 1946 ai giorni nostri è un libro-bomba lanciato sulla Repubblica Italiana.  Per disseppellire le menzogne che hanno accompagnato la nascita della RI come la chiama tout court l’autore Giulio Vignoli. Solo RI, in quanto non meritevole di altro nome perché nel dopoguerra “il regime politico s’impadronì del potere senza mandato popolare”.

I fatti: il Referendum del 2/3 giugno 1946 si svolse con i voti per la Corona e la Monarchia nettamente in testa fino a tutto il 4 giugno. Una valanga di voti repubblicani sarebbe arrivata nella notte fra il 4 e 5 giugno, proveniente dal Sud, cosa non credibile giacché il Sud votò in massa per la Monarchia. Importante: dal Referendum erano stati esclusi Alto Adige, Venezia Giulia con Gorizia Trieste Pola Fiume le isole del Quarnaro, Zara perché in discussione la loro appartenenza all’Italia. Per Zara, quando Ciampi nel 2001 le attribuì la medaglia d’oro in quanto città martire, ci fu l’insurrezione del presidente della Croazia per cui risulta tuttora congelata. E a quei profughi dell’esodo  a suo tempo De Gasperi fece prendere le impronte digitali.
Dal 13 al 18 giugno il potere in Italia fu detenuto dall’Alcide e “Soci di fatto, ma non di diritto”, con interruzione della continuità costituzionale.
Umberto II, pronto ad inchinarsi alla volontà del popolo, aveva affermato di voler attendere il 18 giugno per la pronuncia della Corte Suprema di Cassazione su “reclami, numero votanti e voti nulli”. Agli Italiani scrisse il 13 giugno: “Improvvisamente, questa notte, in spregio alle leggi e al potere indipendente e sovrano della Magistratura, il Governo ha compiuto un gesto rivoluzionario, assumendo con atto unilaterale e arbitrario poteri che non gli spettano”.
La Presidenza del Consiglio (De Gasperi) rispose con un comunicato vergognoso su “falsi”, mentre avrebbe dovuto baciargli i piedi poiché toglieva l’incomodo. Il Re, se avesse voluto reagire ai brogli e al Colpo di Stato, avrebbe avuto ottime possibilità di vittoria come dimostrato nel libro dalle forze elencate e a sua disposizione.
“Era l’inizio dell’odio dei vermi”, scrive Vignoli, repubblicano di sentimenti ma che giovanissimo iniziò a prendere le difese della Monarchia sabauda e dei monarchici in quanto perseguitati e osteggiati, cosa che gli procurò discriminazioni nell’ambiente di lavoro. L’amor di Patria del professore, già docente universitario a Giurisprudenza e a Scienze Politiche per quasi 50 anni, risalta nella sua vita: ha cercato le minoranze italiane disperse in Europa, ne ha scritto (centinaia di pubblicazioni: libri saggi articoli).
L’impietoso confronto!
1) Il giorno dell’abdicazione Vittorio Emanuele III donò allo Stato italiano la sua famosa collezione di monete, la più grande al mondo, valutata miliardi; Umberto II per le spese del Referendum  impegnò la famosa collana di perle della Regina Margherita e prima di partire  -con due sole valigie- consegnò alla Banca d’Italia i gioielli della Corona.
Il PCI, fino all’epoca di Gorbaciov, fu finanziato dall’URSS con un enorme flusso di denaro, diventando potenza economica con enorme  patrimonio immobiliare, pseudo cooperative, banche come MPS. Ebbe le tangenti del commercio Italia-URSS e a tutto questo presiedette per anni Giorgio Napolitano come attestato dalla deposizione di Craxi al Tribunale di Milano nel processo per “Mani pulite”. 
2) Il PCI fu sempre ladrone: dall’oro di Dongo (denaro della Banca d’Italia e quindi degli Italiani) financo ai diritti miliardari d’autore dei Quaderni di Gramsci. Mentre alla di lui figlia, bambina che viveva in Russia, portavano in dono solo una bambolina.
All’inizio ho parlato di una bomba lanciata e questa ha  scoperchiato un vaso di Pandora. Al fondo l’idra feroce del PCI, ma prima, in superficie, tanti mostriciattoli artefici del Comunismo. Napolitano certo, ma anche Togliatti, il criminale astuto (vedi Hotel Lux e periodo della guerra civile spagnola), Nenni che ebbe il “Premio per la Pace Stalin”, prima che se ne svelassero i crimini, De Gasperi definito da Vignoli “viscido austriacante”.

Pregio di questo libro è non fermarsi al passato ma arrivare con cruda e documentatissima analisi ai giorni nostri: dal ’68 alle Br.r., a Berlusconi e alla mala giustizia cioè quella politicizzata, alla scuola dei tutti promossi, alla mafia, ai processi che  videro condannato Priebke che obbedì ad ordini superiori e assolto Piskulic, assassino dei nostri fratelli fiumani, all’odierna invasione musulmana. Il lettore troverà irriverenti, ma azzeccate definizioni, anche per Obama e Papa Bergoglio.

A questo punto conta molto ricordare i nomi. A partire dalle due pagine (18/19) in cui sono elencati molti di coloro che al Referendum votarono Monarchia: “le più alte intelligenze italiane dello scibile in tutti i campi”. Nell’elenco ne cito alcuni perché molto conosciuti: Gino Bartali, Mariù Pascoli (sorella del poeta), Alberto Sordi, Raf Vallone, Amedeo Nazari, Macario, il cardinale Idelfonso Schuster, Valentino Bompiani, Giorgio De Chirico, don Carlo Gnocchi fondatore dell’Opera Mutilatini (Umberto II ospitò al Quirinale i mutilatini della guerra perduta), Leo Longanesi, Indro Montanelli, Padre Pio di Pietralcina che profetizzò “Un  ramo seccherà (Savoia-Carignano), un ramo fiorirà (Savoia-Aosta)…
E “martiri” sono usciti dal vaso di Pandora.

 Gli antichi come i nove giovani di via Medina definiti da Napolitano: “popolino monarchico isterizzato”. Il 12 giugno, dopo il referendum, in una Napoli quasi tutta monarchica, alla sede del PCI in via Medina espongono una bandiera senza stemma sabaudo. Chi cerca di arrampicarsi per toglierla viene ucciso a raffiche di mitra. Ida Cavalieri, una studentessa, ebrea milanese, avvolta nella bandiera del Regno muove alla testa di un centinaio di studenti per fermare le camionette della polizia ma, travolta da queste, muore all’ospedale. Commenta Vignoli: “a Tienanmen il carrista deviò per non travolgere lo studente. Migliori i comunisti cinesi di quelli nostrani?” Vennero anche uccisi dai comunisti due Reali Carabinieri di cui non si svelò mai l’identità come scritto nel libro Umberto II e la crisi di Giovanni Artieri.
Pregio grande del Vignoli è citare una messe di libri  storici controcorrente: altri, in questa nostra Italia dell’occultamento, hanno avuto il coraggio della verità.
Come sigla di Vignoli si potrebbero assumere queste sue parole: “La Sinistra non dimentica, anch’io non dimentico e non perdono”.
Ad un martire, più recente, è dedicato il libro: al Caporale degli Alpini Matteo Miotto, che il 31 dicembre 2010 morì in Afghanistan, paese dilaniato da Talebani e ora anche da Isis. Morì dopo aver sventolato dal carro armato la Bandiera Italiana con la Croce Sabauda. Il Comando nella foto che diffuse censurò lo stemma. Intervenne il padre  di Matteo a mostrare la vera immagine.
Il 10/11 aprile 2016 la tomba di Miotto è stata vandalizzata e torno all’immagine della bomba lanciata. “Il fine giustifica i mezzi” è nota frase che Machiavelli mai scrisse. Se il fine della RI doveva essere “gettarsi alle spalle il passato per costruire la pace”, il non aver mai fatto i conti con il vero passato ha inquinato il risultato. Dal vaso  di Pandora scoperchiato è uscita una nube di Chernobyl che con l’ignoranza ancor oggi ottunde le coscienze.

 

 



Giulio Vignoli
Repubblica Italiana. Dai brogli e dal Colpo di Stato del 1946 ai giorni nostri
Settimo Sigillo-Europa Lib. Ed, 2017
Pagg: 176 Euro 15,00
ISBN: 9788861481916

 

 

 

Ho riportato la mia recensione come è stata pubblicata su www.monarchia.it il giorno 29 gennaio 2018

In copertina del libro la foto di Mario Fioretti, anni 24, uno dei nove giovani uccisi in via Medina a Napoli l’8 giugno 1946 (v. pp.38/39 del libro)

 

 

                                                                Dal libro di Vignoli aggiungo alcune foto

 

 

                                                      

            

 

 

E ora aggiungo, da un libro che chiesi a mio padre come regalo per la maturità e avendo avuto un ottimo risultato mi accontentò,

le  firme di Umberto II e di Maria Gabriella.

Nella  pagina, a matita e con la mia scrittura gallinesca, la data del mio articolo per Il Giorno – Cultura quando Gabriella venne a Palazzo Ducale di Genova per l’inaugurazione della mostra dell’antenato Odone:  21/12/1996

Storia della Casa di Savoia in due volumi e in 400 copie autografate da Umberto II è stato a cura di Fernand Hayward per Cappelli Editore, la mia copia è il n.54.

 

                                                                      

 

Ricordo solo a proposito della firma di Maria Gabriella messa sotto a quella di suo padre Umberto, che prima studiai la principessa e poi, avendo ammirato la sua grazia e compostezza, le porsi il libro chiedendo di autografarmelo. 

Lei, quando vide la firma del padre, si commosse.

 

La prima volta che votai, sposa a 21 anni mentre frequentavo il III anno di Lettere Classiche all’Università di Genova (e mi laureai a giugno del IV con 110 lode e medaglia d’argento) mentre ci recavamo al seggio con mio marito,  rimasti senza benzina, mi toccò spingere l’auto (per fortuna con l’aiuto di qualche volenteroso) fino ad un distributore non lontano.

Votai monarchico ritenendo che noi italiani avessimo un debito con Casa Savoia che fece la nostra Unità. Vedo che tuttora permangono tanti livori e tante dimenticanze al riguardo. Penso che mentre stimiamo come statista Alcide De Gasperi, che però -obtorto collo- fu costretto a lasciare l’Istria alla Yugoslavia continuiamo a scagliarci contro Re Vittorio Emanuele III considerato quasi traditore d’Italia.

Il libro di Vignoli chiarisce molte cose incluso il fatto che il Re, in quanto la Corona era povera, fu aiutato nella fuga dal Papa. In regimi cambiati alcuni sovrani sono stati riaccolti in patria, noi siamo incapaci di perdono.

Poi tornando a quella prima votazione votai liberale e mi piace citare queste parole: “Quelli che è sempre colpa del liberalismo, anche se in Italia neppure esiste. A sinistra (ma pure a destra) è diffusa l’idea che ogni male della società sia frutto dell’avidità e dell’arrivismo capitalistico”. Quindi votai DC (come tutte le beghine d’Italia, commento di mio padre) e poi FI e quando questa cambiò nome pensai che prima o poi sarei fuoruscita dall’arco parlamentare…

Torno su Maria Gabriella di cui avevo ammirato la compostezza. Per far capire vi chiedo di confrontare la Regina Elisabetta e la sguaiataggine di Hillary Clinton nella sua recente campagna elettorale, quando –sicura delle vittoria- lasciava cadere la mandibola quasi sul seno ridendo a piena bocca in modo volgarissimo.

Più che le influenze russe (pallino americano) è stata questa sua volgarità a farla perdere. Per lei non potevano che partecipare altrettanto volgari starlet americane o campioni dello sport che hanno tanti soldi ma tanta ingnoranza.

Ricordo che a Palazzo Ducale inviata a scrivere l’articolo sul Giorno c’era un’altra giornalista giovane, non ne rammento il nome, ma il sussiego con tanto implicito disprezzo con cui si accingeva a scrivere dei Savoia: evidentemente anche lei poco aveva studiato di Storia. Era della categoria di quelli sempre con il sopracciglio inarcato…

Inserisco ora un’immagine di Gabriella giovane che io ragazzina avevo ritagliato e che ho conservato nel libro sulla Storia di Casa Savoia. Cito anche da  un librino Umberto di Savoia comandante del Gruppo delle Armate dell’Ovest (1940-XVIII) (Estratto dalla Rassegna Italiana – anno XXIII – Agosto-Settembre 1940 XVIII) che mi fu donato da Luigi Casartelli, un amico bobbiese (che non è più) e il cui padre era stato uomo di fiducia del Marchese Malaspina: (p.10) “Il sentimento del soldato lo sospinge irresistibilmente verso il campo di battaglia dove c’è pericolo, dove si soffre e si muore…Egli non sa resistere al richiamo, e per tutto il tempo che infuria la battaglia, corre, appena può laddove più grande è il rischio e più violenta la lotta. Quanto più il pericolo superato è stato palese e vicino, tanto più il suo volto appare raggiante”. E nel momento il suo Gruppo Armate si scioglieva, Umberto disse: (p. 12) “Dieci mesi di vita in comune, di fervida e appassionata collaborazione, avevano fatto delle nostre volontà una volontà sola…”

Retorica del tempo? Ma penso all’oggi quando essere insieme non riesce a definirsi in questo modo epico perché non c’è più sentimento di Patria comune.

                                                                              

                                                    Maria Gabriella di Savoia    XVII sec. Trombettieri con drappelle di Savoia

 

Forse ho sempre avuto una passione per l’epica e gli eroi:

Achille, il personaggio che più amai studiando Omero e in cui identificai la ribellione di ogni giovinezza. Lo studiai per la mia tesi di laurea Aristeia omerica e virgiliana con Enrico Turolla, dove nel frontespizio di essa il professore scrisse: “L’indagine su quella che la candidata chiama ‘aristeia egemonica’ (p.182) è realmente e senza esagerazione rivelatrice anche per chi conosce e ama Omero per avervi dedicato l’intera esistenza”.

Che belle parole ma coincidono con lo spirito del giornalismo e dello scrivere in coscienza e verità: “Capire, far capire e anche farsi capire”.

Aggiungo che ho sempre amato gli eroi: Achille certo, ma anche Leonida e i 300 alle Termopili, Orlando che a Roncisvalle suona l’olifante, Camilla di Virgilio che pur se guerriera da donna si volta a guardare una spilla d’oro ed è trapassata a morte da una freccia, Giovanna D’Arco che all’offerta di un bianco destriero, disse: “Solo i felici cavalcano cavalli bianchi e lei aveva già in sé il presagio della disfatta”, Corradino di Svevia (perché nulla più di una morte giovane è lutto per l’umanità): “Era biondo, era bello era beato sotto l’arco di un tempio è sepolto…” E anche eroi ed eroine delle leggende come da quelle delle Dolomiti, raccolte da Wolff e pubblicate da Cappelli (lo stesso editore della Storia della Casa di Savoia- grande Editore per averci consegnato queste memorie) Dolasilla, regina dei Fanes (le marmotte) che non doveva scendere in battaglia se la sua corazza da argentea fosse diventata scura e invece lo fece morendo per il suo popolo o come la Delibana, non donna guerriera ma fanciulla che aspetta rinchiusa in una grotta un amore che non verrà mai più…

Inserisco ora la foto in costume ma è una foto per turisti e non un costume di Carnevale che ho sempre considerato la festa più triste dell’anno in un viaggio a Windsor con mio marito, quando il nostro secondogenito Cesare, appena laureato in ingegneria elettrotecnica cercando su internet si era trovato un lavoro in una Ditta Inglese e noi per sette anni (il tempo della sua permanenza per lavoro in Inghilterra) una volta l’anno andavamo a trovarlo.

E’ una foto per turisti però il fotografo, un piccoletto grassottello, m’insegnò qualcosa che non ho dimenticato. Mi faceva vedere come dovevo tenere il ventaglio e soprattutto non voleva ridessi in quanto le dame inglesi (ma era la stessa tradizione per le nobildonne genovesi) dovevano o stare serie o sorridere come se avessero un acino d’uva stretto tra le labbra.

 

                                                                       

                                                         Maria Luisa e Giovanni a Windsor (in costume)

       

E poiché sono un’archivista anche se molto disordinata, avendo citato la mia tesi, allego un ricordo del prof. Enrico Turolla che mi avrebbe proposto per il diritto di pubblicazione  se mi fossi fermata all’Università accettando di migliorare qualche capitolo.

Il Professore voleva restassi per offrirmi la possibilità di continuare in ambito universitario, ma l’Università di allora mi sembrava vecchia e polverosa.

Quando avevo detto a Turolla, al terzo anno d’Università, che mi sposavo, aveva commentato: “Povera bambina” e dopo mi aveva chiesto scusa spigandomi che aveva pensato ai sacrifici di sua cognata rimasta presto vedova.

Il pensiero di Turolla coincise con quello di Gina De Benedetti mia amata professoressa del ginnasio: “Tante belle intelligenze femminili vanno sprecate” . Però resto orgogliosa di 30 anni da giornalista pubblicista, sempre con 4 o 5 articoli la settimana e collaborando in contemporanea ad almeno due giornali. Sono orgogliosa anche delle due Scuole Superiori (comunicazioni sociali, giornalismo) in cui mi diplomai all’Università Cattolica sempre con il principio del presto e bene: massimo dei voti nel minor tempo possibile.

Era stato proprio Turolla a chiedermi di fare la tesi con lui. Gi avevo detto che desideravo laurearmi in lingua e letteratura italiana e la sua risposta era stata: “Perché quando la letteratura greca è tanto più originale e profonda?” Mi convinse e ora so che aveva ragione in questo giudizio: il patrimonio di idee, la saggezza, l’indagine storica che fanno di Erodoto anche un cronista dell’antichità, l’incredibile leggerezza dei poeti dell’Antologia Palatina restano in chi li ha studiati. Sono una ricchezza dello spirito.

 Ancora un episodio da quegli anni giovani: ricordo che Turolla dopo l’esame di bizantino che si dava al quarto anno mi disse: “Non ti do la lode perché al corso siete tutte donne e se no la vogliono anche le altre”. E aggiunse: “La tua tesi così bella l’hai fatta proprio tu?”. Piangevo, fuori dall’aula, per quel commento. Passò un ragazzo e mi batté la mano sulla spalla: “I professori sono tutti pazzi, cosa ti ha dato?” E io tra le lacrime: “Trenta”. Lui batté i tacchi, mi fece il saluto militare inabissandosi al fondo del corridoio. Tra le lacrime io piangevo e ridevo.

 

 

                            

                                     

 

 

                                                                           Articolo di Mario Messina

Rubrica Musica

Gazzettino di Venezia

11 gennaio 1985

 

 

 


                                                                                                                                                                       

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

           

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

       

 

            

 

 

 

                        

 

 

 

 

                                                                                     Le storie più brutte

                                                          di Emilio e Maria Antonietta Biagini

 

 

                                                                           

 

 

Le storie più brutte - Come raccontare al nipotino le menzogne della storia contemporanea per Fede & Cultura è la più recente opera di una coppia di scrittori: Emilio e Maria Antonietta Biagini. Lui, docente universitario e fecondo scrittore, Lei che ha studiato a Genova già autrice di diverse pubblicazioni. Loro notizie sul su www.itrigotti.it.

Questo nuovo libro è illuminante, di chiarezza e semplicità di scrittura quindi più che adatto alla divulgazione, ma anche denso e arduo per la storia controcorrente rispetto a ciò che  imparammo a scuola e che i ragazzi tuttora imparano.

I due autori sono profondamente religiosi e per i mali della nostra contemporaneità partono da alcuni momenti fondamentali: la Riforma protestante, la Rivoluzione francese, la Massoneria.

La Riforma, figlia di un Rinascimento che affermava l’uomo come centro dell’Universo, aveva favorito la ribellione protestante contro la Chiesa e  il pensiero di un successo mondano capace di aprire le porte del Paradiso. Fu il primo assalto alla Chiesa tradizionale.

Come gli autori spiegano nell’“Antico Regime molte delle migliori tradizioni cristiane come ordine, nobiltà d’animo, serenità di spirito, si conservavano presso la maggior parte delle famiglie”. Ma “la Rivoluzione insegnò a vivere secondo l’interesse personale, all’insegna del denaro e dell’avidità, distruggendo quanto era di buono nell’Antico Regime”.

Nel libro una delle parti più interessanti riguarda proprio quella Rivoluzione di “Egalité. Liberté. Fraternité.” che i meno ortodossi alla vulgata corrente hanno sempre interpretato sottolineando il “punto”, cioè “point” (= niente) di tutte queste cose.

Dal libro una considerazione, importante e inusuale: alcuni storici si sono basati sulle lamentele dei contadini francesi che per sfuggire ad una tassa sui redditi, detta “taglia” e applicata in base alla ricchezza visibile, ostentavano una povertà che non c’era. Il popolo prima della Rivoluzione francese non era in miseria o in quella miseria che li spinse a prendere la Bastiglia al grido di “pane, pane!”.

Su questa conquista dei rivoluzionari il libro fornisce dati: i rivoltosi erano al massimo 6000 su un totale di 20 milioni di francesi, il 14 luglio 600 ammutinati rubarono fucili e munizioni. La propaganda massonica poi dipinse la fortezza come un’orrenda prigione mentre allora c’erano solo 7 prigionieri e la guarnigione era composta da poche decine di uomini per lo più invalidi.

Non solo, l’intera Parigi assisteva al ridicolo assedio, qualcuno fin con cannocchiali. La banalità dell’accaduto è testimoniata perfino da un estremista rivoluzionario come Marat. Tra i delitti della Rivoluzione l’aver inventato il “genocidio”, quello dei vandeani.

Molto dissacrante nel libro la rivisitazione di personaggi illustri: Napoleone, Garibaldi, Mazzini, Cavour, Pellico…

Gli autori definiscono Napoleone “individuo odioso che devastò e saccheggiò l’Europa e rubò tutti i capolavori d’arte su cui mise le mani”. Se però a Napoleone bisogna riconoscere quella marcia in più che hanno solo alcuni, per Mazzini troviamo queste parole: “un distruttore capace solo di architettare cospirazioni e di mandare a morire i suoi seguaci compiendo attentati e atti terroristici da cui lui si teneva a debita distanza”. E il capitolo che riguarda Cavour porta il titolo: “Gli intrighi di Cavour”.

Garibaldi? Ci viene presentato nel capitolo che  riguarda la fuga di Pio IX, da Roma a Gaeta, all’inizio della Prima Guerra d’Indipendenza (1848/49): “arrivò Garibaldi, già attivo in Sud America come ladro di cavalli e commerciante di schiavi cinesi destinati a morire nelle terribili miniere di guano”. Viene anche denunciato l’apporto di bande mafiose alle schiere garibaldine per conquistare il Regno di Napoli. Cosa che avvenne più con la corruzione di alti ufficiali dell’esercito e della marina del Regno stesso e con l’appoggio della malavita del Mezzogiorno.

Mentre le bande garibaldine devastavano il Sud, l’esercito sabaudo invase senza dichiarazione di guerra e senza giustificazione lo Stato pontificio, lasciando al Papa solo il Lazio. Per di più nella ricerca di denaro per finanziare le guerre il governo post-unitario aggiunse alle tasse anche quella sulle porte e finestre che subito furono costruite più piccole, con poco spazio al sole e incremento della TBC.

Il libro affascina proprio per queste minute notizie che riguardano la vita quotidiana dei tanti, ma porta anche giudizi critici molto severi, disfacendo pregiudizi: “non è vero che lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie fossero sacche di arretratezza”. Un esempio. La Roma di Pio IX aveva un ospedale ogni 9000 abitanti ed un istituto di beneficenza ogni 2700 abitanti. Londra, centro del maggior Impero mai apparso sulla terra, aveva un ospedale ogni 40mila e un istituto di beneficenza ogni 7000. Fin dal Seicento il governo di Londra  era stato inventore e precursore del lager della Germania nazista e del gulag dell’Unione Sovietica: gli indesiderabili erano imprigionati nelle colonie britanniche.

Silvio Pellico, venuto ventenne da Saluzzo a Milano a cercar fortuna, ebbe successo ma dovette entrare nella Massoneria. Si affiliò alla Carboneria, arrestato nel 1820  ricevette la condanna a morte per alto tradimento, ma dopo 8 anni fu graziato e liberato. Nel suo Le mie prigioni, scritto in carcere, si dichiarò desideroso di tornare alla religione cattolica e affermò che gli austriaci non erano per niente malvagi come da propaganda massonica. Osservazione dei Biagini: “oggi nelle antologie scolastiche di Pellico si ricordano solo i brani esaltati un tempo dalla propaganda massonica per distogliere l’attenzione dal resto del libro”.

Pellico fu autore anche de I doveri degli uomini in cui, da galantuomo e da cattolico, parla di doveri mentre “tanti mascalzoni – osservazione dei Biagini per il nipotino – parlano solo di diritti”.

Non a caso, il prossimo libro che i Biagini hanno in mente riguarderà l’Austria, anch’essa colpita da una propaganda non veritiera ai tempi del nostro Risorgimento.

Quanto alla Massoneria, tanto spesso accusata nel libro, la spiegazione nel volume VIII del Grande Dizionario Enciclopedico della Utet è: “Associazione segreta a carattere speculativo e scopi genericamente filantropici, sorta nel XVIII secolo in Inghilterra sulla base di precedenti filoni e tradizioni sia esoteriche, sia operative. In Italia contribuì al Risorgimento (affiliati Mazzini, Cavour,  Garibaldi). Il Fascismo provvide al saccheggio sistematico delle sue sedi. Ricomparve di pari passo con la Liberazione, riportando nel 1944 a Roma il Supremo Consiglio d’Italia.

Da queste notizie tratte dal Dizionario penso che ebbe fortuna e peso come tutte le Associazioni di potere con adepti importanti, ma confesso la mia ignoranza al riguardo.

Quanto all’Austria, nata a Trieste, so che quando moriva un funzionario asburgico, la prima pensione - con le giuste parole di condoglianza- veniva portata alla vedova da un inviato da parte dell’Imperatore.

 

 

 

                                       Mia indissolubile compagna

                                             Lettere a Laura Boschian di Salvatore Satta

 

(Interessante notare - e ho segnato in rosso - le frasi dell’insigne giurista e scrittore sardo che ci riportano ai momenti della nascita della nostra Repubblica e appaiono coincidenti per atmosfera con quanto detto nella recensione precedente dal prof. Giulio Vignoli).

 

Anticipo una foto del matrimonio di Salvatore e Laura, 3 maggio 1939, davanti alla cattedrale di Trieste tratta da Padrigali mattutini, sempre del giurista, che allegherò di seguito, avendo avuto la fortuna di leggere anche quel delizioso libro).

 

                                                                                

                                                          

                                        Mia indissolubile compagna – Lettere a Laura Boschian 1938-1971, 

con titolo tratto da una lettera, prosegue da parte della sarda Ilisso nella riproposta del giurista Salvatore Satta. Questi come scrittore è  rimasto nella memoria soprattutto per Il Giorno del giudizio (edito postumo nel 1971), grande libro etico del ‘900.

Nel 2015, per Ilisso, ottima casa editrice (testi eleganti, raffinate copertine e carta delle pagine che fa venir voglia di annusare i libri), è uscito il delizioso Padrigali mattutini, a raccogliere quei pensieri che il giurista, prima di recarsi al lavoro, lasciava alla moglie. Questo nuovo volumetto ci propone 119 lettere, da lui indirizzate a Laura, di cui un’ottantina dal dicembre 1938 all’aprile 1939,  poco prima del loro matrimonio celebrato il 3 maggio 1939.

Accuratissima, illuminante per contestualizzare le lettere e meglio capire, la prefazione di Angela Guiso.

Risalta innanzi tutto la storia d’amore tra Satta di 36 anni e la slavista Laura, la triestina ventiquattrenne, allora assistente volontaria alla cattedra di Letteratura Russa a Padova. Il giurista sta per lasciare questa Università in cui aveva insegnato Diritto Processuale Civile per la nuova sede di Genova. Chi non crede al colpo di fulmine, e reciproco, si ricrederà poiché proprio nel momento del primo incontro Satta chiede a Laura se sia già fidanzata: potrebbe innamorarsi di lei e non vuole pasticci. E Laura, a sua volta, precisando che per lei non contava più nessuno, scrive nei suoi diari: “Ormai avevo preso la coincidenza per Satta”.

E’ una storia raccontata in questo documento solo dalla parte di lui e dove lei appare l’approdo. Lui, pur nella sua saggezza, è percorso da dubbi e tormenti, Lei è la donna forte che guiderà la famiglia pur se si definisce “donnina” poco preparata alle cure domestiche. Lui stesso è impreparato al metter su casa, cercarla a Genova, trovare i mobili. Così, leggendo le lettere, troviamo passi in cui si parla di paure (con effetti un po’ esilaranti ma teneri, quasi commoventi) di fronte a questo futuro borghese e casalingo.

Emerge però - a tutto tondo - la personalità eccezionale dell’uomo di legge. Nel 1968 l’amico Enrico Biamonti, dopo aver letto i suoi Soliloqui e colloqui di un giurista, gli scrive: “Dio volesse che la scienza giuridica fosse veramente una scienza morale, quella che, nei suoi valori, non dovrebbe mai mutare, pur adattandosi ai tempi”. Satta sente insoddisfazione verso tale scienza giuridica che dovrebbe cambiare. “Il giurista non vede l’uomo e continua a studiare la norma”, scrive pensando che l’uomo è proiettato verso la luna mentre il giurista sembra rigettato in un passato antico, e ancora: “Processo vuol dire procedere cioè andare avanti, mentre il giudice parla un linguaggio negativo, una vera e propria lingua morta”.

Le opere giuridiche di Satta sono state molteplici, importanti proprio nella direzione di uno svecchiamento necessario, di un adeguarsi a tempi che cambiano. Ho voluto partire dal giurista perché Satta amò molto il suo lavoro, ma in generale amò lo studio che apre alla conoscenza. In una lettera del gennaio 1939, a pochi mesi dal matrimonio, scrive a Laura: “Amo molto lo studio e desidero che anche Lei lo ami e continui ad amarlo”.

I due sposi prenderanno l’abitudine di letture serali in comune sui classici italiani, ma anche stranieri e soprattutto su quegli autori russi che lei faceva conoscere a lui. A queste letture seguiranno i viaggi di famiglia con i due figli, in Italia e in mete lontane.

Illuminante questa frase di Bob (così viene chiamato Satta in famiglia, diminutivo da Bobore o Boboreddu, in sardo Salvatore): “Bob cammina a testa in giù, a testa in su con la fantasia che ci rende simili a Dio”. La sua leggerezza deriva dall’euforia dell’amore e del matrimonio che si avvicina; mentre in un momento di depressione causato dalla guerra annota: “I pensieri vagano qua e là con un volo tondo di pipistrello impeciato”. Il suo linguaggio (e altrove ha espresso che per lui “scrivere belle lettere è un’intima gioia”), ci disvela  qualità di grande scrittore.

Della guerra nelle lettere poche notizie a parte qualcuna sul razionamento dei cibi. Per contrasto risaltano due sue esternazioni: “Nella giornata festiva che vedrà una grandiosa adunata di popolo osannante per i nostri immancabili destini…” (dell’ottobre 1940 e vi si coglie l’ironia); quindi il 14 giugno del 1946: “A Roma sono diventato fierissimo monarchico, avendo assistito ad una sfilata di repubblicani, redivivi fascisti in camicia rossa, vomitanti ingiurie ed errori di grammatica dalla libera bocca”.

Quanto alla caratura dell’uomo risalta un saldo amore di famiglia, per quella d’origine (si occupa di un nipote che appare demotivato) e quella che si è costruito e sembra voler racchiudere in un cerchio magico, solo per loro.  Quando ai due sposi si aggiungono i due figli, dice del secondogenito Gino, di cui ha ricevuto una foto del marzo 1944 e non aveva ancora un anno: “Gino non sorride perché sa che la vita è una cosa seria e una cosa serissima nella vita è il babbo”.

I figli, già più grandicelli, che lo vengono a prendere alla stazione, sono definiti: “I soliti due ceffi di famiglia”.

Un gran bel diario in cui risaltano anche squisitezze del cibo nella vita domestica come la “barbagliata” o un dolcetto della Pasticceria Preti. Salvatore, di cui si capisce la gioia quando abitando in Corso Italia di Genova e leggendosi qualche lettera della moglie la percorreva tra sole e mare, si lascia anche scappare un giudizio impietoso di confronto tra città: “Genova dopo l’eleganza di Trieste mi è sembrata tanto brutta nella sua pompa briosa di palazzi umbertini”.

                                           

 

                                                                                PADRIGALI MATTUTINI

                                                                                 di SALVATORE SATTA

 

“Fu chiesto a un’ape cos’è la vita:.../’La vita è sole, sole, sole’./La domanda fu posta a una radice:... ‘La vita è vento, vento, vento’”. Versi tratti da Padrigali mattutini di Salvatore Satta, un delizioso librino sapienziale ma con l’incredibile leggerezza dell’essere. Sono le rime che il giurista  lasciava come saluto prima di uscire per il lavoro alla moglie, Laura Boschian, da lui affettuosamente chiamata Mucio, e ai due figli Luigi e Filippo che ora li hanno raccolti e pubblicati con l’Editore Ilisso.

Con questo stesso Editore sardo uscì Il giorno del giudizio, uno dei libri più etici del ‘900 che consacrò Satta come grande scrittore oltreché giurista di fama autore di numerose pubblicazioni tra cui si ricordano Commentario al codice di procedura civile e diritto processuale civile (1966) e Soliloqui di un giurista (1968). Da notare che pure Il giorno del giudizio uscì postumo due anni dopo la morte di Salvatore nel 1975, alla cui stesura aveva atteso dal 1970 e che fu tradotto in 16 lingue. Satta aveva esordito come scrittore nel 1926 con il romanzo La Veranda in cui raccontava due anni passati in sanatorio poco più ventenne e allora la tisi era una malattia che faceva paura dato che era non solo molto contagiosa, anche spesso mortale. La sua limpida coscienza lo aveva spinto a narrare quella prima esperienza di un dolore personale e di un primo amore nato in sanatorio per condividerne le riflessioni con altri.

Le rime mattutine che i figli hanno voluto raccogliere - e non è stato solo un atto d’amore familiare anche un dono di ‘predisposizione alla vita’ che fa bene ai tanti per quel guizzo di bonomia (come si sarebbe detto una volta), quello sguardo sereno sul nostro esistere con tutta la poesia della quotidianità. Questo pur nelle difficoltà di ogni giorno che sempre si apre come un’incognita, come una piccola battaglia da affrontare.

I versi possono essere molto domestici e riguardano lo sciacquone che si è guastato nel bagno dei bimbi (e di cui dovrà occuparsi Mucio per farlo riparare) ma anche il Congresso dei giuristi, quelli delle “inutili parole” (un costume che abbiamo visto riguardare non solo i Convegni di studio, anche i vari tavoli di concertazione, le Circoscrizioni e i Municipi, le pubbliche assemblee, il Parlamento di ieri e di oggi). Condividiamo la sofferenza di Salvatore che va ad un congresso di quella gente (i giuristi) “che non sa cosa fare tra Jaeger porco e Enrico Tullio fesso”. Salvatore ci riempie di simpatia nel firmare estroso queste rime unendo al suo appellativo  “Bibi” quello di Dante, come altrove si chiamerà Bibi Petarca o ancora Iona quasi fosse il biografo errante. Altre volte, secondo l’estro del momento, si firma Pindaro o Salvator Dalì e lo fa spesso per ricordare che “il frigorifero piange”, che “il lavandino è da sturare”, che il papassino (dolcetto sardo per la colazione del mattino) era “schifoso”, senza però dimenticare un contentino per la moglie che dovrà assumersi  l’incombenza delle riparazioni: “Non sono né Onorio né Arcadio/ ma sono la tua metà./Trasporta pure l’armadio/ se questa è la tua voluttà”.

L’amore per la moglie triestina risalta in questi versi con cui la descrive in una riunione di amici: “col suo passo da cerbiatta/pur se un poco attempatella/ ma per me tuttavia bella/ viene la Signora Satta”.

Quale sposa dopo tanti anni di matrimonio non vorrebbe una così dolce dichiarazione, tanto più vera delle candele accese e dei giganteschi mazzi di fiori di stupide Soap e come non vorremmo un po’ tutti, noi italiani, ritrovare un modo conviviale dove non ci siano vomitatori d’odio e pseudopolitici  invasati di rabbia. Satta in questi versi parla anche a noi indicandoci un modo sereno di vivere che sembrava più comune nell’Italia che si andava costruendo nel dopoguerra e in un tempo di minor benessere.

Il prezioso librino (poco più di 100 pagine), molto elegante nell’edizione che porta a fronte il testo scritto nell’elegante grafìa di Salvatore e quello battuto a macchina per la stampa, si apre con un gioiellino: sono le pagine introduttive e di spiegazione di vari componimenti poetici, curate da Valerio Magrelli, ripercorrendo la storia della corrispondenza a partire da Omero.

Un altro gioiello in chiusura: foto di famiglia da quella della nozze di Salvatore e Laura nel 1939 davanti alla cattedrale di Trieste, alla loro casa in corso Italia a Genova, alla festa in costume sardo quando Salvatore  ottenne l’incarico all’Università di Roma e poi gli studi del giurista, a Genova in via Brigate Partigiane e a Roma in via Cavalier d’Arpino. Una bella foto del 1964 mostra la famiglia al completo al ritorno a Fiumicino dall’Etiopia e ne mostra il senso profondo e affettuoso. Anche il valore di una bella famiglia  si trasmette ed è frutto di educazione.

 

 

 

Giovanni Meriana

  

 

 

                                                                                                                        

 

Del professore Giovanni Meriana, 86 anni, nato a Savignone, già assessore alla cultura a Genova e scrittore di vari libri (ne ho recensito Pane Azzimo e Memorie di Casa Temolo), metto la locandina dell’invito per la ri-presentazione di uno dei suoi testi di maggior successo, Andalò da Savignone.

A fianco la copertina di Sono partiti tutti- Ultimi giorni di Reneusi e altre storie, edito nel 2010. Il professore me lo ha inviato per il Natale scorso, dono molto gradito anche perché parla del monte Antola che vedo alto a sinistra andando per la Valtrebbia a Bobbio, la città della mia mamma.

Dal libro una nota storica che si incontra nelle pagine iniziali: “Una sentenza dell’imperatore Rodolfo II del 30 novembre 1576 riconosce a Scipione e a Ettore Fieschi, che lo hanno rivendicato da Antonio e Pagano Doria a seguito della congiura, il territorio di diversi castelli, tra cui Torriglia e Carrega. Reneusi (ed è la prima volta che se ne parla) è nella giurisdizione di quest’ultimo”.

 

 

Sono partiti tutti

Ultimi giorni di Reneusi e altre storie

 

Nel libro, prima dei racconti, questi versi di Giorgio Caproni:

 

Sono partiti tutti.

Hanno spento la luce,

chiuso la porta, e tutti

(tutti) se ne sono andati

uno dopo l’altro.

Soli,

sono rimasti gli alberi…

Di questo libro affascina per prima cosa la scrittura:  precisa da apparire scientifica, senza sbavature o inutili divagazioni, pregnante da dilatare in profondità il significato delle parole. Leggerlo è come fare un pasto ricco ed esserne del tutto saziati e soddisfatti.

Il testo consta di due racconti iniziali ed a seguire altri 15 brevi. Per primo quello che dà il titolo “Gli ultimi giorni di Reneusi”, quindi “Il posto dei ciliegi” che descrive Ceresole il luogo dove l’autore visse l’infanzia. Pregio del libro è poter scoprire, ma attraverso brevi cenni personali lungo tutti i racconti, l’Uomo Giovanni Meriana.

In questo libro sono cristallizzate le sue esperienze personali importanti, il suo sentire come si è formato negli anni, imparando da ciò che veniva a conoscere e dai rapporti umani. Dagli anni della vita in campagna, immaginifici per il linguaggio e per la fantasia, a quelli dei primi studi come convittore all’Istituto Arecco, alle esperienze più significative di quando è stato Assessore alla Cultura nella Giunta del Sindaco Sansa. Questa “geografia di vita” è dominata dal monte Antola con nella sua cintura i due paesi citati: Reneusi più verso Torriglia e Valtrebbia e, verso la valle Scrivia, Cerisola (il posto dei ciliegi), il cui nome sembra derivare dal francese cerise, la ciliegia (in dialetto Serixeua). Queste parole di nostalgia chiudono il racconto di Cerisole: “Anche i ciliegi cessarono di rivestire di bianco le quattro case del paese al tempo della fioritura…” Perché i due paesi dell’Appennino sono abbandonati da più di 60/70 anni dal 2010 data di pubblicazione del libro con la Sagep.

Meriana s’interroga subito sul perché siano stati fondati in luoghi così impervi: Reneusi “a ridosso di una costa di monte isolata da mondo”, Cerisola “chiuso in una piega di monte, forse per difenderlo dalla tramontana gelida”. Per Reneusi, costruito a oltre mille metri di altezza e lontano dal fondo valle, dove avvenivano gli scambi commerciali, avanza due ipotesi: “fame di terra” a seguito di gravi carestie o le scorrerie di pirati barbareschi e saraceni che costringevano pescatori e marinai della costa a riciclarsi in montanari. Per Cerisola la fondazione sarebbe stata causata dal maggiorascato: una delle cinque famiglie storiche del paese, i Repetto, sarebbe venuta dalle Capanne di Marcarolo, un paese di case sparse su una costa di monte, tra le valli Gorzente e Stura. Le famiglie delle Capanne erano fittavole degli Spinola, feudatari di tutta la zona e solo il primogenito maschio poteva succedere nei possedimenti al capofamiglia deceduto, da ciò l’emigrazione forzata dei figli cadetti. Le altre quattro famiglie erano dei Valente, cognome dato a qualcuno che “sapeva farsi valere”. L’unico residente allora rimasto è appunto un Valente. Assaporate questa foto, intitolata “L’ultimo”.

                                                                      

“Però un paese è tale quando c’è la gente a renderlo vivo, a coltivare i terreni attorno alle case, a tenere puliti i boschi, a sorvegliare che gli incendi non facciano un falò dei casolari in una notte di vento” così scrive Meriana e se ne coglie tutto lo struggimento.

La stessa nostalgia per Reneusi che si è spopolato (e di cui l’autore ci descrive la Storia, la Scuola, il Prete, il Catasto napoleonico (i soldati di Napoleone con l’occupazione avevano portato il Catasto che definì le proprietà, il Codice civile e la Leva obbligatoria). Ci parla dei bambini, tra cui c’era sempre  “il birba”, quello che messo in un posto dopo pochi minuti è altrove e per cui nel dialetto di Ceresola c’è la voce dialettale “l’è afoitò”, termine derivato dalla faina il più astuto e svelto dei selvatici. Ho voluto riprendere questa voce termine del dialetto di Ceresola perché la storia di questi paesi abbandonati si rassomiglia. Quei bimbi, crescendo, li hanno lasciati e grazie allo studio (anche se di poche classi elementari) hanno potuto scendere a valle per farsi operai nelle fabbriche o per continuare a studiare come è stato per l’autore stesso. Meriana per raggiungere “il trenino di Casella” (un racconto del libro porta questo titolo), che lo portava a Genova, dove in terza media raggiungeva l’Istituto Arecco di cui poi diventò convittore, racconta: “Quando c’era la neve sprofondavo talvolta fino al ginocchio, nel viaggio battevo i denti dal freddo perché le carrozze erano gelide e riuscivo ad asciugarmi solo a sera accanto alla stufa, ritornato al paese”.

Per Reneusi l’inizio dello spopolamento inizia con una tragedia: il tragico amore di Davide per Maria sua cugina prima. Davide era uno di quei bambini che andavano a scuola ma che crebbe apprezzato soprattutto per l’ingegnosità nel costruire basti tutti diversi (per trasportare legna, erba, formaggi). Le famiglie erano tutte imparentate tra loro, ma i genitori di Maria, appunto per scongiurare il matrimonio, decidono di trasferirsi a valle. Allora quando sul sentiero passa Maria che se ne sta andando, lui, Davide, per non perderla le spara e poi si suicida.

Questa fu la fine di Reneusi: “Partirono tutti” e poi arrivarono gli sciacalli, gitanti-predoni che si introducevano nelle case abbandonate per saccheggiarle e impadronirsi di antichi attrezzi e suppellettili, per farne mostra nelle proprie caso o per venderli ai Musei contadini.

A Reneusi si nascose Giangiacomo Feltrinelli. Forse perché l’unica testimonianza è dell’amico Marcello Venturi nel suo libro Tempo supplementare. Storie del Novecento. Un itinerario umano e civile (Nino Aragno Editore, 2000).

Meriana ristabilisce per lui una sorta di giustizia. “La sua morte ha fatto di lui lo zimbello dei bombaroli senza mestiere, ma nel suo passato assieme agli esplosivi c’è la Biblioteca Feltrinelli, fondata per guardare al mondo operaio attraverso la scrittura. In seguito la Casa Editrice  riuscì a far arrivare dalla Russia con viaggio clandestino il dottor Zivago, cosa per cui il PCI gli tolse la tessera di partito.

Da chi ha preso Meriana, cosa c’è nel suo Dna? L’ingegnosità del padre che a Ceresola è stato un contadino innovativo, aperto alle innovazioni tecnologiche da lui divulgate tra i compaesani: un contadino benestante. Dalla madre la cura, l’attenzione massima all’universo delle parole che nasce da chi parla il dialetto. Questo era la sola lingua materna e ne traggo alcune definizioni che riguardano le donne: “l’è precacinn-a” per la donna svelta, attiva, piena d’iniziativa; “l’è na scixerboa” per la petulante-ficcanaso, la cui etimologia forse è dalla pianta infestante della clematide.

Poi, per l’autore, ci sono stati gli studi: l’Arecco dei Gesuiti, da cui porta in sé negli anni adulti un’idea chiara di ciò che è bene e ciò che è male, anche un iniziale integralismo cattolico che poi superò con il dubbio e le domande che l’uomo intelligente si pone nella ricerca del proprio senso esistenziale; anche l’amore per il cinema ispiratogli da Padre Arpa che lasciò l’Istituto per dedicarsi al Cineforum.

Con gli studi e con il lavoro Meriana visse adolescenza e giovinezza lontano dalla famiglia d’origine ma ha conservato intatto l’amore per le tradizioni contadine come risalta da altri racconti dove le leggende si mescolano a ricerche storiche sulla loro origine. Interessanti ed originali come nel racconto “Lo Scravà” il gigante che aiutava gli ubriachi di notte ad attraversare lo Scrivia, ed è assimilato a San Cristoforo. Un racconto “I ravioli di Garibaldi” ci introduce in una storia di famiglia a Montoggio con la nascita della Trattoria Rosin di Tre Fontane e del Museo storico della Valle Scrivia (Meriana si è occupato attivamente di Musei). Dell’esperienza di Assessore alla Cultura ricorda quando nel 1996 si recò ad Uppsala per accompagnare il violino di Paganini per una serie di concerti nel castello che domina la città. Proprio in una cittadina vicina trova idee per come si potrebbero rendere più interessanti e comprensibili al visitatore i Musei contadini. “I conservatori –scrive Meriana - vedono sovente solo ‘il museo’ e gli oggetti che vi sono collocati, assai meno il contesto ambientale in cui il museo è sorto”.

Un amico definì l’autore “un aristocratico” e questo aspetto che sorprese Meriana nel sentirselo dire, risalta bene in uno dei racconti finali “Sul bus”. Vi vede giovani d’oggi vocianti con parolacce, con piercing e tatuaggi, sporchi all’apparenza (altre volte Meriana ha espresso la sua insofferenza ai cattivi odori), in una parola: “maleducatissimi!”.

Quasi per contrappasso “La forchetta d’argento”, racconto in cui torna all’amato Monte Antola per far rivivere la memoria di due signore genovesi, Elena Piaggio e Angiolina Borgonovo, animate da uno straordinario amore per il nostro entroterra e in modo particolare per Torriglia e Valtrebbia. Realizzarono il sogno di costruirvi le loro case ed una è diventata Villa Elena, oggi sede di una Casa di riposo per anziani, l’altro villino diventò il Rifugio Bensa.

Ho scritto davvero tanto, decisamente troppo per la misura di una recensione, ma questo libro di paesaggi, personaggi (gente comune e protagonisti), tradizioni, anche culinarie, leggende, microstorie e grande Storia è un pasto ricco. 

Va centellinato portata dopo portata.

 

 

 

 

                                                                             Giglio Reduzzi

 

 

 

                                                                     

 

                                                                 Giglio e la moglie Pierangela - 50 di matrimonio

                                                                               (sposi il 10 maggio 1962).

 

                                                                            - E’ arrivata la svolta

                                                                    - Il Paese che vorrei

                                                                       di Giglio Reduzzi

 

 

Per il Natale scorso, puntuale come sempre, Giglio Reduzzi, bergamasco che vive a Genova, ha pubblicato con Youcanprint  questi due nuovi saggi. In forma di diario, pensieri scritti giorno per giorno, facendo proprio il detto di sapienza antica “nullus dies sine linea”, che è il miglior modo per tener viva la mente. E quando i pensieri sono illuminanti, spesso controcorrente come appunto le riflessioni di Reduzzi, diventano un dono per gli altri.

Il primo saggio E’ arrivata la svolta va dal 6 aprile al 15 agosto; il secondo Il Paese che vorrei dal 18 agosto al 13 novembre scorso.

Gli interessi dell’autore vertono da sempre su Politica e Religione (cioè: vita quotidiana e vita spirituale), ma la novità è averli messi insieme in queste pagine mentre in passato dedicava ad essi saggi distinti.

Come precisa lo stesso Reduzzi la sua passione per la scrittura lo ha portato a comporre circa 40 saggi da quando “è venuta di moda l’auto-pubblicazione e quindi è venuta meno  la difficoltà di trovare un editore per chi non fosse già famoso”. Un nome noto – aggiungo io - che attira vendite come per tanti libri sfornati da politici e starlet di Tv o  spettacolo che mai ci negano la loro autobiografia. Ma è biografia degna di questo nome? Cosa mai ci lascia?

Di Giglio ho recensito per le pagine di Genova de il Giornale diversi testi, di alcuni ho riportato sul mio Sito 2013 (http://marialuisabressani.wixsite.com/marialuisabressani; pagina 12-Storia e pagina 14-Autori di “Recensioni e non solo”).

Cosa apprezzo di Reduzzi scrittore? La chiarezza cartesiana, l’elegante umorismo, e quanto alle idee mi trovo in sintonia.

Dei suoi saggi ne cito a memoria uno fiammeggiante Justice o Giustizia all’italiana, dedicato alla nostra giustizia politicizzata. Riguardo a Berlusconi da quando entrò in politica sono stati “28” gli ordini a comparire (a scomparire!), di cui allora, nel 2011, “23” processi  chiusi senza che “mai” fosse dichiarato colpevole. Gli fu comunque addossata “la propensione alla criminalità”; quasi “per contrappasso”  Reduzzi cita in quel saggio la mancata estradizione dell’assassino Cesare Battisti. Poiché questa perdura l’autore torna in queste pagine sul nome di Battisti, affiancandogli Giulio Regeni ma solo per ricordarci quanto poco peso abbia l’Italia all’estero. Ritorna pure a criticare gli interminabili processi italiani con spese enormi ma anche la Corte europea di Strasburgo, cui Berlusconi si è rivolto: dopo cinque anni non si è ancora pronunciata mentre dovrebbe andar veloce per non precludergli la corsa politica da leader. Ciò che -con tutta evidenza- sembra voler fare.

Dei due saggi colpiscono altre gravi omissioni denunciate dall’autore. I silenzi del Papa: il 7 ottobre 2017 anniversario della battaglia di Lepanto, la Sua mancata partecipazione al Family Day del 2016. Silenzi come dalla Sinistra –il 9 novembre- sulla caduta del Muro di Berlino.

Quanto all’altro grande interesse dell’autore, la Religione, quest’ultimo saggio è dedicato ad un martire cristiano ignorato: il quindicenne Arslan Masih, studente torturato ed ucciso in Pakistan perché rifiutava di rinnegare Cristo e diventare musulmano.

Un’altra storia prende al cuore per chi come lui crede in Famiglia e valore della maternità: la giovane madre che, sapendo di dover morire, destina 18 doni alla sua bimba  incaricando il marito di consegnarglieli ad ogni compleanno, fino ai 18 anni.

Di Reduzzi ho apprezzato una volta di più il preciso commento a molti fatti della nostra quotidianità: dai dolosi incendi estivi, allo studio (vedi il numero chiuso che parrebbe illegittimo da introdurre alle Facoltà umanistiche mentre queste, a parte l’insegnamento, non offrono sbocchi professionali), alle Chiese che potrebbero diventar Musei in cui pagar  biglietto (come già avveniva da tempo nella vicina Jugoslavia), alle vaccinazioni per i bimbi su cui si discute, non altrettanto su quelle dei migranti.

Questo del gran numero di migranti, percepito dagli italiani come un’invasione, è punto dolente della nostra attualità. Il primo dei due saggi inizia con una foto di musulmani, proni in preghiera davanti al Duomo di Milano; nel secondo Reduzzi ci ricorda che a Londra ci sono 423 nuove moschee, che nella Chiesa di San Giorgio alla Messa domenicale ci sono 10 0 20 cristiani mentre la Moschea di Brune Street è così affollata che i musulmani pregano anche per strada. Però Giglio propone anche soluzioni sulla gestione dei migranti come dare soldi (nostri ed europei) ai missionari in Africa più che ai tanti governi corrotti e che li sprecano.

 

                                                                              

 

Per l’umorismo, dote dell’autore, basti questo suo passo: “A differenza di Celentano Grillo ritiene che con il reddito di cittadinanza anche chi non lavora possa fare l’amore”.

Voglio ancora segnalare due sue ricerche storiche: L’epopea dei Caravana (La –tanto derisa- Operosità Bergamasca)e Dal Brembo al Mississippi. Nella prima ricorda che la Compagnia dei Caravana (antico nome della Compagnia Unica del Porto di Genova) si costituì nel 1340 solo con uomini bergamaschi. Un privilegio loro concesso perché scoppiata una pestilenza solo facchini bergamaschi seppellirono i cadaveri lasciati in strada. Nella seconda si deve convenire con lui nel confronto con una burocrazia americana molto più semplice della nostra.

                                     Da E’ arrivata la svolta foto di Papa Bergoglio eloquenti  più delle parole

 

                                                                                           

 

 

 

                                                                              GIOVANNI FERRERO

                                                                         (Chicco in famiglia)

 

 

                                                                                      

                                                                        Parin  - Cav. Ferrero Giacomo 1851-1938

 

L’ingegner Giovanni Ferrero, nella sua consueta passeggiata mattutina, ritrova un vecchio collega ansaldino, neo ingegnere elettrotecnico come lui assunto in Ansaldo nello stesso anno (1963). Gli racconta qualche aneddoto di famiglia dei tempi andati e questi gli dice: “perché non scrivi i tuoi ricordi?”.

Il suggerimento dà ali ad un altro quando, poco tempo prima, un nipotino gli aveva portato un quaderno di quelli grandi per scrivervi “le sue memorie”. Nome questo un po’ pomposo ma la maestra – educativa - aveva spiegato che i ricordi degli anziani sono  la nostra ricchezza più grande. Si può forse resistere agli occhi  con tante domande di un bambino? Così l’ingegnere, classe 1937, di getto e in meno di un mese, su quel grande quaderno dalla copertina verde scrive la storia della sua famiglia d’origine.

 Nel libro, (edito Youcanprint nel 2016), nei vari capitoli aggiungerà preziose foto (è anche un collezionista) con sapore del tempo che fu e con quella patina d’antico color seppia ti prende al cuore. Chicco è il suo soprannome e pure i suoi tre fratelli ebbero dolci appellativi d’affetto materno: “Mimmo, Dudo e Peppi”.

I ricordi di Chicco  iniziano a Valfenera d’Asti, il paese d’origine della famiglia Ferrero, una trentina di chilometri a sud di Torino. Il tempo è quello della II guerra mondiale e nella casa avita in via Maestra erano sfollati i figli del capostipite Parin, ben nove, di cui mancavano solo Sebastiano e Augusto, parroco e vice-parroco  ad Agliano d’Asti.

“Ti domanderai il perché”, con questa domanda, riferita agli zoccoletti, Chicco incomincia a raccontare. “Il fatto è che i miei ricordi iniziano quando d’inverno portavo gli zoccoletti con la suola di legno e la tomaia di un cuoio nero e rigido…” Ne conserva ancora uno in bella vista in uno scaffale della biblioteca per non dimenticare quel tempo in cui suo padre,  che aveva combattuto nella guerra 1915-18 e che nella seconda era sfollato con la famiglia a Valfenera, confezionava  con fatica e  precisione servendosi di forme da calzolaio.

L’autore ci indica come ha scritto questi ricordi e ci anticipa: “Le mie radici sono le radici di tutti, uguali e diverse, in esse tutti si possono riconoscere: potevo esser nato in qualsiasi parte d’Italia, eppure c’è un’identità nel trascorrere di ricordi che tanti, in essi, possono trovare una piccola parte delle loro”.

Il capostipite della famiglia è Parin-Giacomo Ferrero (1851-1938) e mentre noi diciamo ai figli: “saluta il nonno”, allora si diceva “saluta Parin”. Aveva spirito imprenditoriale: iniziò vendendo ai contadini solfato di rame e guano del Cile (ottimo concime) girando per la campagna in biroccio e con una pistola a tamburo per difendersi dai ladri. In un libricino, che il nipote Chicco ha conservato, annotava  le proprietà che man mano veniva acquistando.

Sposo nel 1877, biondo, capelli fluenti e ondulati, due occhi azzurri e limpidi; lei, capelli corvini, con un grande chignon e uno scialle dalle lunghissime frange e rose ricamate. Lei muore due anni dopo.

Parin si risposa con Zanet, soprannome piemontese di Giovanna; nel libro anche la foto del menu delle nozze d’oro con, tra altre squisitezze, “polli novelli alla finanziera, arrosto inglese primaverile, quaglie e pernici in salmì, e tra i dolci quelle frutte sciroppate di stagione” che erano parte della tradizione culinaria casalinga.

Nel libro a tutti i nove figli di Parin sono dedicate poche pagine che ne ricordano e condensano la vita. Quasi a presentarceli visivamente, prima del racconto,  “un santino”, foto che si metteva in morte per il miglior ricordo di sé.

“In un paese – scrive –  a fine ‘800 tre erano le figure di spicco: il prete (accompagnava dal battesimo al funerale), il farmacista (del dottore si faceva a meno ricorrendo a salassi e pozioni, per le nascite bastava la levatrice) e il notaio, (uomo di legge che dirimeva le questioni sui confini dei terreni e  le eredità)”. Parin, cui non mancava lungimiranza ed un pizzico di ambizione, ebbe queste tre figure tra i suoi figli tutti laureati.

Chicco dedica un ritratto a zia Benedetta, la sorella maggiore, regina della famiglia, che aveva contribuito ad allevare i fratelli e per questo non si era sposata, ma  per gli 80 anni ebbe un mazzo di rose rosse da un antico pretendente. Particolarmente sentito il ricordo di zio Mario che gli fu maestro nella “caccia da piuma” (pernici, non lepre) perché gli insegnò “fatica, rispetto del prossimo, amicizia, obbedienza”. Anche rispetto della natura e etica della caccia: “non si spara mai ad una quaglia che si alza dal nido o ad un perniciotto”.

Se Chicco, ad inizio libro, ha voluto precisare che i suoi sono ricordi di bimbo e non condizionati dalla tragedia della guerra, non mancano  alcuni episodi esilaranti proprio perché visti dalla parte di un bambino. Come nel giorno in cui arrivano al podere tre repubblichini in  cerca di cibo: quando nei loro discorsi vien fuori la parola Benito, un cuginetto piccolo dice: “l’hanno ammazzato”. Panico e suspense, poi la spiegazione: qualche giorno prima era stato macellato il maialino detto Benito con cui i bambini giocavano. Quando poi ci descrive il gabinetto alla turca, che magnanimamente Parin metteva a disposizione dei contadini nei giorni di mercato, Chicco ricorda che fino agli anni ottanta  vi campeggiava una scritta, incisa all’interno della porta di legno da qualche “ospite” per la “perfida Albione”:                        

                                                                    “Se gli inglesi asfissiar volete,

                                                                in questo cesso di peso li mettete”.

C’è anche una cartolina, inviata nella I guerra mondiale da zio Pinotto a zio Angelo di cui da tempo non aveva notizie: “Sei vivo o sei morto? Bacioni!”

Il libro si conclude con la storia dei suoi genitori. Cesare, nato nel 1893, e  Lidia nel 1905.

Cesare, ingegnere, negli anni ’30 con il fratello Angelo (anche lui ingegnere) fonda le Officine Ferrero che a Savona fu la più importante industria privata del dopoguerra; in quei tempi di ricostruzione si ampliò anche grazie agli operai, fedelissimi e  affezionati a  chi dava loro lavoro. Cesare realizzò, insieme ad altri strumenti ed attrezzi per l’edilizia, un  Regolo Circolare per il calcolo del cemento armato  esposto all’Università d’Ingegneria di Genova.

Lidia era nata in Egitto. Suo padre Augusto Vignetta, nato a Pinerolo nel 1874 e da giovane vissuto con la famiglia paterna a Nizza, dopo una giovinezza da giramondo (Palestina, Sud Africa) si fermò in Egitto a Porto Said dove fondò un’impresa che perforava pozzi nel deserto per trovare l’acqua. Fu chiamato al Cairo da Re Fuad e messo a capo dello staff (oggi si direbbe Vice Ministro) del Ministero dei Lavori Pubblici al Cairo. Si sposò con una ragazza della borghesia maltese: rimase vedovo con Lidia ragazzina e si trasferì a Torino. Dall’Egitto, allora protettorato inglese e cosmpolita (erano i tempi del fervore seguito all’apertura del Canale di Suez) arriva in questa nostra città, importante sì ma con mentalità ben diversa. Lidia non aveva ancora vent’anni e si chiude in sé, dedicandosi a migliorare il suo italiano, alla musica, alla pittura con Casorati. Nella vita, nonostante la cura di quattro figli ben allevati, non verrà mai meno al suo talento artistico.

Il finale della storia di famiglia è affidato a Silvio Vignetta, cugino primo di Lidia,  che per il suo lavoro ma soprattutto per lo spirito “cosmopolita”, assorbito nella giovinezza al Cairo con i suoi genitori, viaggiò poi per tutto il mondo e ci ha lasciato un grande libro Una lunga vita.

Silvio ricorda così la mamma e il papà di Chicco, sotto la foto di un anniversario di nozze di Cesare e Lidia nella cornice degli otto nipoti:   

                                                                                “Cara Lidia,

                                                             mi manchi, eri la mia sorella maggiore.

                                                         Di Cesare ancora oggi (siamo nel 2005) vedo,

                                                          vivo, e non posso dimenticare come diceva

                                                           e faceva dire le preghiere prima dei pasti.

                                                                        Io lo faccio ancora oggi

 

                                                        

                                          Nozze Parin 1880 Valfenera               In fondo Casa Ferrero:

 

“Collassò nel 2001, ne raccolsi un

mattone per ricordo” così ha scritto Giovanni e

di qui la data finale della Storia di famiglia.

(La casa fu ricostruita dal fratello ing. Augusto  Ferrero)

 

 

 

                                 Oltre ai cari messaggi dei parenti, questi due sono stati ricevuti e particolarmente condivisi dall’autore:

 

                          

 

                                                                           Genova, 19 febbraio 2016

                                                       Professoressa Maria Clotilde Giuliani.

 

 

“Mi rallegro per la Sua memoria che è riuscita con attenzione e puntualità a far rivivere in un bellissimo affresco figure davvero indimenticabili come Parin, adamantino patriarca, gli zii operosi e geniali, le dolci zie, i genitori forti e tenaci, Valfenera la casa del cuore.

Sullo sfondo la società borghese che dalla campagna si apre alla città con quella imprenditoria e quella originalità che ne ha fatto la spina dorsale ed economica dell’Italia e di grande interesse anche le pagine sulla Guerra, cariche di preoccupazioni e di disagi per gli adulti e così serene per i bambini.

I suoi sei nipotini saranno sempre orgogliosi e riconoscenti per avere un Nonno come Lei che, oltre ad essere un ingegnere di notevole rilievo, scrive tanto bene e dimostra una delicatezza e una sensibilità non comuni. Il Suo libro è un grande dono d’amore”.

 

                                                                            28 agosto 2016

                                                                 Ingegner Fabio Capocaccia

 

“All’inizio ho pensato ad un libro scritto per i nipoti perché non si perda la memoria della famiglia, una specie di trattato familiare pieno di nomi e di fatti, utile solo ai discendenti…

Poi devo confessare che sono rimasto preso dalla forza di questa famiglia, dallo straordinario disegno del Padre Padrone (o meglio Parin), dalla ricostruzione fedele delle vicende dei nostri nonni, che un po’ tutti si somigliano. E poi la guerra e il rapporto dei bambini con i tedeschi e i partigiani (sono stato sfollato a Roccagrimalda, ed ero affascinato dalla guerra senza capire i drammi, le differenze e le contraddizioni, ma per me quello è stato un periodo bello e molto formativo, mi facevo i giocattoli da solo anch’io, che poi erano fucili, camion e jeep)…

Certe volte le storie vere hanno una forza che nessun romanzo di fantasia riuscirebbe a creare. Ho poi trovato delle semplici (e divertenti) verità: il farmacista vale più del medico, il notaio più dell’avvocato, e almeno un prete nelle grandi famiglie ci vuole (vedi anche i Costa). E poi l’incontro tra papà e mamma al Valentino è un vero capolavoro…: ”ma di che cosa dobbiamo parlare?”. Penso ai ragazzi di oggi…

Insomma ho passato qualche bel momento e volevo dirtelo…

Ho poi apprezzato il tono volutamente dimesso, l’understatement, il contrario della retorica.

Quando, alla fine, del Papà Cesare bisogna per forza che vengano fuori le qualità, che qualcuno abbia il coraggio di dirlo, allora si fa parlare il cugino Silvio…

 

Proprio un bel libro.

                                                

                                               Un caro saluto

 

                                                          Fabio

                                              

                                             

                                              

 

 

 

                                                                                          Una lunga vita

 

 

 

                                  

 

Silvio Vignetta 1920-2011

Nome in famiglia “Sev acronimo di Silvio Edgardo Vignetta

                    

                                                                              

                                                     Sev al Carlo Alberto      Sev campione di scherma   Sev-M/n Victoria

                                                        di Moncalieri 1929             1937                    1937

                                              

                                                        

                

                                              E questa recensione così ben rilevata dallo sfondo giallo è come me l’ha rimandata Silvio

                                                                                                      come ringraziamento.

 

                                                                                                    

                                                                                               1972 Silvio e la figlia Daniela

 

 

Grazia Zerbi, seconda moglie di Silvio, è anch’essa scrittrice e allego due recensioni da me scritte per lei, anteponendo la sua foto sempre dal libro Una lunga vita.

 

                           Grazia Zerbi

 

                                                                                              

                                                    

                                                   

                                                                                                           L’Affresco       

 

L’Affresco di Grazia Zerbi (Runde Taarn Edizioni, Gerenzano di Varese) rivela una scrittrice autentica e la presentazione dei cinque racconti sottolinea che rivendicano “la centralità dell’Altra Metà del Cielo”. Zerbi ha scritto Diario per caso (2001) e  Storia di Martita (2003). A chi li voglia leggere comunicheranno una visione al femminile, intimista, profonda. L’autrice vive soprattutto a Bordighera, poco ormai a Saronno, e lo scenario è dominato dal paesaggio ligure-francese: “Lunghe onde verde-dorato di viti, macchie argentate d’uliveti”. La prima voce è il rumore del mare,  il saluto della Riviera a chi viene dalla nebbia. Su questo sfondo una domanda accomuna le donne: “Io? Cosa significo in tanta compiutezza?”

Le trame riguardano: una moglie, stanca di una quotidianità cui non si era mai ribellata, che fugge al mare; una madre che va al mare ma per sottrarsi al ricordo della figlia giovanissima, schiantata in moto in “un autunno di foglie rosse come il sangue”; una cinquantenne che vive il distacco d’amore con un ragazzo giovane; due sposi paghi di sé e della quieta normalità; “La Charmeuse” (nome dato ad una casa al mare) dedicato al padre.

Nei racconti all’inquietudine esistenziale della donna moderna fa da contraltare la saggezza degli umili: di Maddalena che aiuta in casa e un giorno arriva con un mazzo d’alloro, ulivo, cipresso e ortensie violette suggerendo l’affresco che intitola il libro; di Nanni, una tata che ha allevato la mamma di Anna, la ragazza morta in moto. Delle stelle diceva che le vediamo rovesciate. “Brillano dall’altra parte mille volte di più, là dove stanno tutti i morti.”

A fianco di queste donne, le giovani: figlie “che vale la pena di vivere, come scatole a sorpresa delle quali almeno una riscatterà le deludenti”, figlie aggressive che rifiutano come “banale, statico” l’insegnamento, un ruolo tradizionale. “Cosa c’è di statico nel nutrire le menti dei bambini, nell’insegnare il gusto della parola?” si chiede una madre che vive immersa da sottomarino nella “banalità della giornata”, che dell’amore con il marito pensa: “Siamo tutti e due miti, miti l’uno verso l’altro, con il prossimo, con gli accadimenti”. E dei ricordi per chi non è più: “Credo anche la resurrezione sia tutta lì, nel ricordare”. Se il suicidio sembra talvolta unica sortita dalla vita, ogni esistenza s’inscrive nella perfezione di un cerchio, come in un arcobaleno: dal cuore della terra al sommo cielo.

L’ultimo racconto di questa signora d’animo è per il padre, quando lo veglia in morte. Vorrebbe spalancare le finestre per far entrare la luce, perché lo ripensa a “La Charmeuse”, vitalissimo sulla battigia con la camicia come una vela in vacanze di una lunga felicità di famiglia. In questo racconto il ricordo di un disegno dai colori accesi che fece bambina. La sorella maggiore lo criticò senza capire che l’irrazionale ci fa vedere di là del naso. Pregio del libro una scrittura cromatica come il caleidoscopio dei sentimenti. Tenera la storia del cagnolino Tom di cui, in stazione, un ragazzo nel partire per militare le mise in mano il guinzaglio: “Non ho a chi darlo”. Il padre, che lei aspettava, sceso dal treno lo prese in braccio, accettandolo. Questo ha significato l’Altra Metà del Cielo: affetti, colori, particolari a creare l’affresco del nostro vivere.

Forse Grazia Zerbi mi è rimasta così simpatica anche perché con il marito (come i Biagini) sono una colta coppia di scrittori. Il suo, Silvio E. Vignetta, 90 anni, è autore di Una lunga vita con la storia di tanta industria italiana del “boom” e degli eventi che hanno percorso tutto il Novecento. Forse perché, in controcanto con le arrabbiate d’oggi, mi ha detto: “A dispetto di questo così conclamato inaridimento dello spirito, non smetterò di credere che ci sarà, nel tempo, un recupero di valori fondanti della vita”. E mi ha chiesto una critica vera, “se no, non serve”: umiltà di una vera scrittrice!

                        

 

                                      

                                                                                        Agnese e i continenti

                                                                                di Grazia Zerbi

 

Agnese e i Continenti di Grazia Zerbi, il sesto e più recente raccolta di racconti o versi di un’intensa autrice lombarda, si apre con una storia d’incantevole freschezza.

Agnese che dà il titolo al libro è una “ragazza” invecchiata con un padre che scriveva libri, aveva visitato quasi ogni angolo del mondo e che poi le raccontava “mari e continenti”.

A 70 anni ormai compiuti, donna sola ma con cuore di ragazza, considerata un po’ tocca per la sua riservatezza “asociale”, Agnese riempie lo zainetto e decide di raggiungere il mai visto per comprare una barca (ha messo da parte i soldi) e con questa raggiungere i Continenti dei fantastici racconti del padre.

Inizia così, con disarmante candore, la sua avventura…

Seguono una decina di storie, quasi tutte con per titolo un nome femminile. Esplorano il loro mondo, aprendoci continenti di attese, speranze, disillusioni.

Al loro fianco spesso uomini, anche intelligenti però suggenti, quasi misteriosi nel voler custodire egoismi privati o tradimenti.

Le donne sono i Continenti e forse l’uomo è il Mare.

I racconti infatti ondeggiano tra due poli: attesa di come le donne vorrebbero le cose fossero e mistero di come gli uomini sfuggano, talvolta distruggendo, talvolta lasciando uno spiraglio al sogno. A far da sottofondo ma anche da protagonista il Mare con la sua voce dalle tante sfumature.

L’acqua che scorre, vita perché “quell’acqua scura non sta ferma mai” per riecheggiare parole di una canzone a me cara (di Bruno Lauzi) ritorna in un racconto particolare, dedicato al padre dell’autrice con titolo “1915-1918”.

Narra la storia del sergente Berzi (anagramma indubbio di Zerbi) che nella I Guerra mondiale si era battuto per un ideale, l’Irredentismo ed era stato salvato da un soldatino, gettatosi su di lui e dilaniato dalla granata da cui voleva proteggerlo. Come superare il lutto di quella morte continuando a vivere?

Ecco invece che nel racconto e soprattutto nella mente di Berzi si sovrappongono misteriosamente le acque di due fiumi, il Danubio dove, ripensando alla guerra, allora si trovava e il Piave degli anni del conflitto: l’acqua che scorre diventa acqua di vita e accende la speranza di poter continuare.

A questo racconto quasi di chiusura all’essenziale libretto ne seguono altri due connotativi degli affetti di Grazia.

“Ricordo tutto”, dedicato la marito Silvio che non è più, di cui Lei dice: “Il tuo amore profondo e paziente”. Ultimo di questa triade “Li penso mano nella mano” dedicato ai genitori e al loro amore iniziato con un pacchetto di caldarroste che a Lei sfugge di mano e che Lui aiuta a raccogliere”.

Anzi in questo spazio così umano irrompe ancora un affetto: Foxy, un cagnolino chiamato così perché ha l’aspetto di volpe. Anche lui un illuso, un rifiutato e tradito come diverse donne dei precedenti racconti, ma che gettato in mare da chi voleva liberarsi di lui, giunto a riva trova una donna capace di amarlo: Lui, fiero dell’appartenenza incontrata, grida al Mare che lo aveva salvato con onde pronte ad accompagnarlo a riva come Nereidi: “Mi chiamo Foxy!”

Da tutti i racconti ci nascono riflessioni profonde, che ci appaiono naturali, senza pedanteria alcuna. Uno stile che quasi ci culla con immagini stupende di una natura sovrastante nella sua eternità bella: le colline d’Inghilterra viola di erica, un prato di betulle dritte come ceri votivi accesi al cielo, un balcone di gerani a dimostrare che “l’amore non si stanca mai della dedizione che ci chiede”. Credo questa sia la chiave più vera del libro: Grazia è stata fortunata, ha avuto amore lo ha ritornato.

 

Così avendo inaugurato in questa pagina recensioni a libi di donne ne inserisco altre due, a me particolarmente care, dato che mi riportano la nostalgia della mia terra

 

 

                                 

 

                                                                                        

                                                                              Laura Boschian Satta e i figli a Genova

 

                                                                         Diari della triestina Laura Boschian

                                                                                  (1939-1959)

 

 

 

Della triestina Laura Boschian sono due diari, di molte pagine: il primo riguarda la sua infanzia e giovinezza Trieste (1915/’39); il secondo va dal matrimonio nel ‘39 con Salvatore Satta, al ‘59 quando muore suo padre Arturo Boschian, fondatore a Trieste di una Ditta di “Lane e cotoni”, poi al ’60 con il trasferimento da Genova a Roma.

Per Ilisso nel 1977 uscì Il Giorno del Giudizio del marito, che gli diede gran fama di scrittore: storia di una famiglia di Nuoro tra Ottocento/Novecento in cui ogni figura rievocata dal passato chiede di essere ascoltata e compresa in vista di quel giudizio finale che ci tocca nella verità della morte. Il libro fu rilevato da Adelphi nel 1979.

Il primo volume di questo diario della moglie Laura che iniziò da giovane secondo quel motto antico “nullus dies sine linea” è un atto d’amore verso Trieste, la sua città natale, che con razionalità connota fin dalla prime pagine nelle sue coordinate di paesaggio e territorio. Inizia con le passeggiate che lei e il futuro marito, conosciuto a Padova dove lui era docente e lei assistente alla Cattedra di Letteratura Russa, facevano nei dintorni di Trieste.

Scrive: <<Visitavamo Barcola che è un prolungamento della città sul mare, Opcina succursale della città sul Carso, Conconello sulla collina più alta,  Muggia ancora sul mare>>.

Uno splendido incipit che connota la città così come si presenta e che arricchisce di particolari: i depositi di agrumi che  allora erano insediati al piano terra di ogni casa,  la bora voce di Trieste, i cestini di lamponi che ad agosto si coglievano in Carso. Laura, vera “osservatora”, come si compiaceva di definirsi Lalla Romano grande scrittrice  ricordando questo complimento rivoltole da un uomo semplice, ci dà particolari di moda delle donne d’allora: lo strangolin, rigido e alto nastro bianco che fasciava il collo della nonna materna (della nobile famiglia Machlig, vedova poco più che trentenne, che poi mantenne sé e la figlia insegnando il ricamo alle ragazze delle famiglie bene), ma anche notizie poco ricordate pur se dei Caffè di Trieste in molti hanno scritto. Lei precisa che vi si leggevano i giornali in tre lingue, usanza dell’Impero Austro-Ungarico, in voga a Vienna e Budapest.

In questo paesaggio anche la storia di famiglia, che non è destinata solo ai due figli e ai cinque nipoti come crede Laura da nonna, ma interessa per i costumi del tempo: il controllo scolastico dei pidocchi, la cerimonia del tè pomeridiano, i balli delle diciottenni (e Laura non  frivola, anzi quasi selvatica, seguiva queste usanze solo per non scontentare mamma e nonna). Una storia di famiglia che si allarga alle case di villeggiatura che il padre veniva acquistando.

E in una di queste, a Villa Decani vicino a Capodistria, Laura tornerà un giorno incontrando di nuovo il vecchio slavo Carlo (il manente potremmo definirlo), commovendolo e commovendoci. Per lui scrive una delle tante frasi incisive, fulminee che caratterizzano il suo stile: <<Al di là di ogni problema sociale nazionale e infine politico, Carlo da giovane aveva amato la sua dura giornata di contadino e (nel nostro incontro) la sua anima semplice era emersa per un attimo, luce che fa l’uomo uomo>>. Tante  queste sue frasi folgoranti. Perle di saggezza come quando nel secondo tomo parlerà dei “delinquenti di oggi e di ieri”: <<Venuta la pace (dopo l’ultima guerra) il male era esaurito, dopo 50 anni di pace il male è virulento>>.

Tra i personaggi della sua famiglia d’origine dove non mancava certo l’amore ma c’era conflittualità proprio tra i coniugi, la madre di famiglia aristocratica e il padre d’origine contadina, Laura sceglie la nonna materna che “si era fatta o piuttosto rifatta da sé” e il “babbo”: due persone che si rassomigliavano, “imprenditori di sé”.

In questo ambiente nasce il suo amore per lo studio che va oltre la sua natura di bimba un po’ ribelle (nel senso che pensava certe regole vecchie e superate, da sostituire con altre migliori). Amore che la porta al Liceo Dante di Trieste dove un “maestro” rimane per lei indimenticabile: Stuparich. <<Uscir vivo dalla guerra del ‘15 con una medaglia d’oro non era cosa da tutti>>,  scrive di lui e poi: <<Stuparich aveva un cuore di fiamma, con lui imparammo a diventar persone>>.

Consegue la laurea in letteratura russa, la borsa di studio a Praga. Nel 1952 quando il suo figlio più piccolo Gino, che ha fortemente voluto la pubblicazione di queste pagine, non aveva ancora 10 anni, Laura ricordandosi che era il centenario di Gogol ricontatta a Praga il suo professore Lo Gatto, fondatore della slavistica italiana, e riprende  gli studi. Vincerà un concorso, pubblicherà diversi libri sul Settecento e Ottocento russo, sulla Vita di Lenin; su Dalla Santa Russia all’Urss (1905-1924). Un destino voluto da tutti; e molti saggi.

Nel secondo volume è centrale l’esperienza della guerra con il primo bombardamento su Genova dal porto, con un primo rifugio a casa di un fratello di Satta, ingegnere che viveva a Sori, quindi alla Colombarola, villa degli Scerni presso Parma. Quando gli Scerni vollero tornare da Bressanone in questa villa capirono di essere stati utilizzati perché i tedeschi requisivano le case sfitte.

In questo volume  dove ripercorriamo la nascita dei due figli e della loro vita di bimbi risplendono due frasi: <<Noi e basta in un intenso circuito d’amore>>(così sentiva Laura riguardo la felicità del suo matrimonio) e poi <<le letture in comune, forse il lusso più grande concessomi dalla vita>>.(Il marito Salvatore, che in famiglia è chiamato Bob, a sera leggeva un libro a Lei che ascoltava lavorando a maglia o ricamando, in seguito anche ai figli).

Del tempo di guerra un episodio affonda nel mistero: Vittorio, figlio del fratello di Satta che viveva a Sori e pilota (nei fascisti di Salò aveva riconosciuto l’ultimo lembo di Patria) precipita  con il suo aereo. In quel momento Filippo, quattro anni, figlio maggiore di Satta, alza gli occhi al cielo infuocato dal tramonto e dice: <<Vedo una stella, è la stella di zio Vittorio in cielo>>.

Le tante pagine sono un onore in più a questa bella e saggia triestina che ha anteposto a tutto studio e famiglia e con il coraggio della verità ci ha restituito notizie e personaggi.

I due testi scorrono come un largo fiume ma oggi noi siamo condizionati a libri brevi perciò, per una lettura più moderna, uno studente molto dotato o un bravo studioso dovrebbero riprenderli in mano per una tesi universitaria o un restyling che salvasse l’essenziale.

Purtroppo di tutte le persone di famiglia tanto care, che scrivendo non possiamo staccarci da esse, ad altri poco importa, mentre costumi, luoghi amati, ideali, nel tempo restano d’interesse per i tanti.

                              

 

                                   

                                                                            Gli Oleandri di Dubrovnik

                                                                 di Maria Rosaria Dominis

 

 

“Francesca si era incamminata verso quell’uscio aperto: non avrebbe mai saputo quanto era bella in quel momento, in quella luce di tramonto con quei barbagli rossi nei capelli. Si fermò davanti a Nicolò ad occhi spalancati e lui: ‘Non è come pensi’. Lei: ‘Allora è come sembra’.”

Così, “fiammeggiante”, ci appare Francesca, la prima delle tre donne protagoniste di altrettanti racconti de Gli Oleandri di Dubrovnik di Maria Rosaria Dominis  (2016, Edizioni Tigulliana), ambientate nel ‘900. Francesca,  slanciata, vita sottile, eleganza anticonformista, ha sposato il figlio del marchese Tommaso Serra. Rimane presto vedova del marito che condivideva i suoi interessi di giovane attrice. Dopo la morte precoce di questi, Francesca vive con la figlia Saveria  e per l’appunto con il nonno Tommaso che la faceva sentire “dignitosa e serena”. Per avere un minimo di indipendenza economica organizza una sorta di doposcuola per bambini, ma, quando il suocero muore all’improvviso, al funerale incontra il nobile parentado che aveva messo al bando Tommaso, in quanto sposo della bambinaia più anziana di lui. Nel bisogno però la famiglia contava ancora molto. Al funerale Francesca s’innamora del ricco cugino Nicolò, ma il momento da cui ho iniziato è quando lei lo scopre uomo diverso da come pensava e troppo fuori dalle convenzioni. Un’amica americana,  dato che Nicolò, poi affetto da senilità precoce, continuerà a prendersi cura di lei e di Saveria, le dice: “Salvi tutto quello che ti preme, cioè i vantaggi delle cortigiane e l’educazione beghina”.

Ho anticipato l’intreccio – e me ne scuso - per far capire come il romanzo di Maria Rosaria Dominis sia di costume, con focus sulla mentalità femminile in mutamento: donne che aspirano all’indipendenza però si appoggiano agli uomini, meglio se importanti.

Le tre storie si svolgono in un’immaginaria isola di Dalmazia, dall’autrice soprannominata “Corallo” per i caldi colori, che con l’indicazione dei posti circostanti può essere  individuabile.

Il secondo racconto, il più amato dai lettori per la modernità del personaggio, rappresenta una giovanissima Lidia che a Corallo è demandata a seguire i lavori di ristrutturazione di una villa di famiglia. Lidia si butta a capofitto in una storia d’amore con chi l’ha fatta sentire importante dandole il compito ma, tradita oltre da lui, (gli uomini del romanzo appaiono “succubi” del fascino delle donne), e da chi l’aveva allevata e doveva proteggerla,  scappa sul motorino. Quando ad una curva vola fuori strada, si rivolge mentalmente a loro che la inseguivano: “Penseranno che l’ho fatto apposta”. Malinconia per una morte giovane!

La terza storia è dedicata a Marianna, nata in un luogo  per mare vicinissimo a Corallo. Ha fatto in Italia un buon matrimonio, però è succube del marito egocentrico e supponente.  Nella sua terra ritrova l’identità perduta.

Marianna è così importante nel libro (infatti il racconto di lei è incastrato alle altre storie prima della conclusione) perché l’autrice, che rifiuta ogni lettura autobiografica, le dona suoi pensieri.

“Sono italiana”, scrive Rosaria nella prefazione, “e vorrei che la mia terra lo fosse ma non lo è. Geograficamente non lo è, (lo è, almeno un po’, per la Storia, faccio osservare). “Sentimentalmente, come molte terre di confine, è come il popolo la sente.

“E’ il popolo che conta; e il popolo allora, era dalmata, semplicemente. I dalmati erano dalmati e basta”.

Attraverso Marianna l’autrice parla di quel suo popolo che conobbe prima dell’esodo. Quasi certamente l’autobiografia c’è nel suo altro bel romanzo La panchina di pietra (De Ferrari Editore) nel personaggio di Flora, bimba croata, arrivata in Italia, viaggiando su un carro bestiame in un Paese del Piemonte non lontano da Torino. Da privilegiata è diventata povera, ma si convince che “agire sia meglio che subire” e i libri le aprono mondi.

Nella prefazione agli Oleandri, Rosaria parla del padre di Marianna che non era stato volontario di guerra e che aveva raggiunto i monti del Kordun, costretto da un gruppo di partigiani scesi sulla costa alla ricerca di un medico.

Per questo padre dottore come per il padre stesso di Rosaria, “imprenditore e di grande famiglia”, vale un’osservazione dell’autrice: “Nel 1947, dopo la confisca dei beni tra gli italiani che partirono, c’era anche una classe dirigente che aveva costruito fabbriche, imprese, alberghi”.

Nel libro affascina la sottolineatura della vita in comune del popolo della costa: “Non erano italiani, croati, turchi, sloveni o serbi ed erano un po’ di tutto questo. Tutti mangiavamo kašica  col latte nelle sere d’inverno e preparavamo focacce con lo sciroppo di rose a Pasqua.  Alle basse maree, a febbraio, tutto il paese raccoglieva conchiglie e preparava il sugo alla polenta”.

Mi trasporto ad una pagina indimenticabile (la 263):  “Pochi sanno che il mare dà il meglio di sé d’inverno. In gennaio è un’esperienza dolcissima sostare al riparo di uno scoglio, mentre il sole intiepidisce il viso…, in febbraio le basse maree scoprono fondali segreti e panorami selvaggi”.

“Una sola cosa emerge dai miei scritti” dice l’autrice “la mia cocente nostalgia per la terra di Dalmazia aspra, profumata e indimenticabile”.

Quanto allo stile il suo amore per particolari connotativi mi riporta alla mente come Lalla Romano definisce se stessa, con parole di un anziano che la conobbe bambina: “E’ un’osservatora!”. Grande pregio di uno scrittore saper trasporre la realtà con esatta osservazione di vita e natura.

                     

                                                                           

 

 

                                Questo è il retro della copertina del libro sempre con foto scattata da Maria Rosaria

 

 

 

           

                               La Senaide di Cesare Quadri

                       a cura della figlia Ester   

 

 

                                            

 

“Basta invocare Calliope sdolcinata” così Cesare Quadri introduce il suo poemetto epico La Senaide e precisa di voler rivolgersi a Marte. Calliope, ormai per usura d’anni, ha la “classica faccia da strega” e di lei il vate “se ne frega”. Nella sestina successiva: “Canto i massacri, l’orge, le congiure/ gli stupri, le violenze, gli assassini,/ canto la dura guerra e le avventure…/canto frati, donnacce, traditori,/villani, mercanti e trovadori”.

La guerra è tra i Senesi, Pisani, Fiorentini “quando la gente a nugoli moriva/ fuori dal letto” per guerre e prepotenze dei più forti che avrebbero ammazzato “anche i già morti”. In questo verso, sa subito, brilla l’umorismo dell’autore e penso anche ad un successivo e molto ironico “duello con le patate”: “le patate,/ se ti piglian colà dove sé nudo/ ti tribbian come fossero sassate…”.

Pregi del poemetto epico: il ritmo dei versi e il linguaggio forte,  a volte scanzonato come era di un autore giovane e un po’ goliardo. Si ricordi la fortuna che a Genova ebbe nei suoi anni d’oro La Baistrocchi, con testi e recita di studenti. Cesare scrisse nel 1943, studente  presso la Facoltà di Legge a Siena.  Aveva 21 anni e fu richiamato in guerra, poi fatto prigioniero dai tedeschi, infine deportato in Germania

Per il ritmo basta questo verso: “dagli al pisano a morte! picchia! ammazza!”. Per la forza del linguaggio bastano questi tre verbi per quel che può fare in battaglia un forcone: “sburra, strippa, ammazza”.

Altro pregio l’attualità di quanto da lui scritto che arriva ad oggi, per fortuna non per le guerre, ma per notazioni come quella sulla “bella Firenze tutta in fiore” e sembra un tweet recente di Renzi o quando il Re di Napoli interviene a metter pace tra Granduca e Chiesa, come un Trump odierno tra le due Coree. Prima tuoni e fulmini, poi la stretta di mano. Per la cronaca la vicenda narrata Da Cesare vien fatto risalire alla seconda metà dell’Ottocento.

Tra colpi di scena continui, con molto umorismo si capisce e si può gustare, ma prima è indispensabile leggere l’introduzione di Cesare stesso che inizia così:

Introduzione per gli ignoranti. (Franco, per esempio).

La vicenda – secondo l’autore – risale al 1840 quando un diciottenne, Carlo Tuba, poeta e pittore, arriva in Siena e prende a frequentare i più illustri uomini di scienza e letterati come il Castragatti, di cui diviene discepolo prediletto. Tuba per i suoi scritti entra in contrasto con la Chiesa. Costretto all’esilio sperimenta (novello Dante) “quanto sappia di sal lo pane dei primi alberghi di Parigi, Londra, Alessandria, Costantinopoli, New York, ecc.”

Tuba nei momenti d’ozio commerciava proficuamente in agrumi e quindi poteva permettersi tali lussuose location. Decise poi di abitare a Madrid dove conobbe il medico e poeta, Palle il vecchio, che divenne suo discepolo prediletto.

Colpo di scena: il Granduca di Toscana, in rotta anche lui con la Chiesa, richiama il Tuba che conduce con sé Palle. Tuba scrive, su desiderio del Granduca, la Toscana scatenata, e viene da lui nominato Sovrintendente alle Finanze ed ai Lavori pubblici.

Nel 1875 Tuba pubblica La Senaide e nel 1903 “la magnifica opera scientifica”, in 17 volumi “Il poema comico ovvero del concetto”. Infine nel 1942 Palle per il trentennale della morte di Tuba pubblica l’edizione della Senaide “purgata, corretta ed aggiunta di un canto e mezzo”.

Nell’introduzione è anche da notare il nome di Castragatti che ritorna nella Dedica messa alla fine del poemetto. A lui, che oltre ad altre mirabolanti qualifiche, ha pure quella di Ispettore generale delle latrine pubblica e privata, Tuba voleva dedicare se il Catragatti gli avesse fatto “il meschino prestito di lire venti”. Ma prestito rifiutato, la Dedica è per chi voglia farlo.

Non manca nel poemetto l’Amore, così importante per un diciottenne, quando nel Canto III due cavalier Chiantini rendono visita a una vicina, gran dama in Castelina, dove s’innamorano entrambi di Baciasole.

Questa era la perfida maga fiorentina di nome Zelmina, e quasi novella Circe, aveva il compito di stregare i due “bischeri di Siena”. In breve Baciasole-Zelmina li fa prigionieri ma nel Canto IV mentre li porta verso Firenze, uno dei due,  Emilio, non cessa di ammirare “il bel visino e la graziosa e soda personcina” della maga. Coup de Théâtre: dopo uno scambio di improperi, Baciasole gli rivela di essere “ancora come mamma la fece” e non la sposa del Duca, ma sua nipote per cui non poteva essere l“amante dello zio”.

C’è anche la parodia dell’incantamento d’amore che governava gli epici paladini, perché il cavaliere Franco De Rossi deve far sollevare gli aretini coinvolgendoli nella guerra. Travestito da frate, arriva ad un castello dove chiede ospitalità. Viene scoperto e il castellano, che ha una figlia molto brutta, gli impone il matrimonio con lei Dopo la prima notte di nozze Franco scappa come una saetta fino al Volga e per questo suo viaggio così lontano mi ricorda un po’  Astolfo sulla luna dell’Orlando Furioso.

Il manoscritto di Cesare Quadri, che in tempo di pace passò con lui da Siena a Genova, è stato pubblicato dalla figlia Ester: perché il padre “per indole mai concludeva le sue cose” o forse per il rimpianto indelebile che un genitore amato lascia nei figli quando muore d’improvviso senza che si sia potuto ritornargli tante parole d’affetto non dette.

Ha fatto molto bene Ester a proporre questa pubblicazione, con affetto di figlia certo, ma perché La Senaide ha uno smalto sempre attuale: la freschezza inventiva che solo i giovani sanno portare e spunti di riflessione fino ai giorni nostri.  Ester si propone ora di pubblicare anche i diari del padre dalla prigionia.

(I molti disegni del libro, anch’essi spesso divertenti come vignette, sono di Cesare Quadri: ne allego uno “I cavalieri” della fine del Canto III e la bandiera del Granducato di Toscana).