INDICE
1)Giovanni B. Varnier, Dio e Patria (2019, Stefano Termanini Editore)
1) Corinna Praga, La porta dei girasoli, (2019, Erga Edizioni)
2) Mauro Covacich, La città interiore, (2019, La nave di Teseo)
3) Oliver Sacks e suoi scritti
sul Parkinson.
Foto di Ida Ragaglia, mia
madre a 19 anni, e che ebbe 25 anni di Parkinson morendo ad 83 anni.
4) Oliver Sacks, Il fiume della
coscienza, (2017, Biblioteca Adelphi 682)
Due libri-diario di persone
affette dal Parkinson:
4) Marzio
Piccinini, Parkinson, Il Tremore e la Speranza (1993, Guaraldi)
5) Ornella Rigodanzo, L'Ospite indesiderato (2020, Amazon
Italia Logistica)
6) Ornella Rigodanzo, Caregiver…quasi
eroi (2021, Amazon, Libri)
7) Giglio Reduzzi, Il meglio di…
(2020, Youcanprint)
8) Giulio Vignoli, La morte per fame della Famiglia Reale del Laos -
Un crimine comunista, (2020 Edizioni Settimo Sigillo)
9) Maria Rosaria Dominis, LA
RICERCA, (2019 Impremix –Edizioni Visual Grafica)
Mi piace iniziare
questa pagina “Aurea senectus” con la recensione al testo del Professore
Varnier e ciò perché - pur essendo il
Professore in quella che si può chiamare l’età migliore della vita (che non è
la vecchiaia) il suo testo riguardante la Prima Guerra Mondiale e i nostri
Padri che fecero l’Unità d’Italia s’inserisce a tutto diritto nella definizione
di un’età dell’oro ormai invecchiata con gli attuali piccoli italiani, figli
minori di quei Padri.
Giovanni B. Varnier
Dio e Patria
Questa
rielaborazione grafica del bel manifesto “Sottoscrivete al prestito” di
Giovanni Capranesi (1918) sottolinea i due valori che portarono all’Unità
d’Italia.
Una copertina
scelta da prof. Giovanni B. Varnier per far risaltare i contributo dei
cattolici italiani a quel conflitto determinante per la nostra coesione di
Popolo nella geografia che ci appartiene di una penisola delimitata dalle Alpi
e circondata per gli altri tre lati dal mare.
Dio e Patria – I
cattolici genovesi nella Grande Guerra (edito a fine 2019 da Stefano
Termanini) si sofferma in particolare
sul contributo di Genova a questi eventi. Genova, città nella cui Università
degli Studi il prof. Varnier ha insegnato (come pure ad Urbino e a Torino) e
dove ha anche ricoperto la carica di preside della Facoltà di Scienze
politiche.
La Premessa di questo elegante libro di cento pagine ci ricorda che è
stato pubblicato nel centenario della fine del primo conflitto mondiale e in
quattro capitoli sviluppa il contenuto di brevi Saggi del professore, usciti
tra il 2015/’18 sulle pagine del periodico
<<L’Operaio ligure>>, una delle più antiche testate del
giornalismo italiano, organo della Federazione delle Società cattoliche liguri
di mutuo soccorso.
Il primo nome ad esser
ricordato è Filippo Meda: fu il primo caso – il 18 giugno 1916 - in cui un
esponente cattolico entrava a far parte del Governo di unione nazionale guidato
da Paolo Boselli e con la qualifica di Ministro delle Finanze. Però il Meda
sedeva sui banchi della Camera già dal 1909. Era il più evidente superamento
del non expedit (=non conviene) con cui Papa Pio IX aveva proibito ai cattolici italiani di partecipare alle
elezioni politiche del Regno d’Italia.
Sempre nella Premessa vengono richiamati due fatti
importanti:
1)
tra il
1917/’18 si concretò l’unione volta al completamento dell’indipendenza
nazionale con la redenzione di Trento e Trieste;
2)
la guerra
aveva messo fine all’equivoco che ancora accompagnava le vicende del movimento
cattolico italiano come ostile al processo di unificazione nazionale.
Il contributo dei cattolici
per come si svolse il processo di unificazione nazionale condotto contro la
Chiesa e contro il potere temporale dei Papi, non pare così scontato, mentre
invece quel contributo è stato determinante. Fu la guerra a far maturare il
superamento del non expedit.
Alla Premessa che ci richiama questi capisaldi storici seguono quattro
agili capitoli (senza alcun peso di erudizione ma molto precisi e documentati
per farci riflettere): Il contesto
generale, Momenti, Figure rappresentative, Documenti; infine le due pagine
di Postfazione che ripercorrono il
patrimonio di storia sociale e religiosa delle Società operaie cattoliche.
Desidero soffermarmi solo su
due pagine che riguardano Pietro Zuccarino: la prima (p.36) “tenente di
Fanteria nella Grande Guerra”, la seconda (p.89) con le motivazioni delle due medaglie di bronzo e della croce al
merito di guerra che gli furono conferite.
Zuccarino, l’11 febbraio
1951 fu consacrato Vescovo
dall’Arcivescovo Giuseppe Siri e
dal 1953 fu Vescovo di Bobbio (PC) e
Abate di San Colombano: a Bobbio è tuttora molto ricordato. C’è un altorilievo
in bronzo nel Duomo bobbiese, a sinistra guardando l’altare, a lui dedicato.
Morì a 75 anni nel 1973 a Genova.
Nel libro nelle pagine prima
di quelle per Zuccarino viene ricordato il marchese ed arcivescovo Ludovico
Gavotti, così stimato che di lui l’<<Operaio ligure>> scrisse:
<<mons. Gavotti non ha bisogno di presentazioni>>.
Le persone sono sempre
quelle che più attirano l’attenzione del lettore e quindi nel libro nella
sezione Documenti sono citati Camillo e Francesco Marré, figli del cav. Efisio
e della nobildonna Anna Brunenghi, che
morirono sul campo di battaglia. Commovente le parole del giornale in loro
commemorazione: “quei giovani lungi dalle baldorie, in cui si soffocano i sensi
della dignità umana, erano stati le tante volte beffeggiati come anacronismi
viventi” che conclude: “non conobbero le gelosie, le perfidie, gli abbandoni
che fanno triste l’esistenza e talvolta nell’età matura fiaccano le tempre più
salde”.
Ritorna in questa parole
quel concetto della tradizione classica: “muore giovane chi è caro agli dei” .
Purtroppo i tempi attuali mostrano spesso orde di giovinastri sbandati e bevuti
che sanno solo lordare e schiamazzare. Allora erano “altri tempi” ma i valori
Dio e Patria diedero a molti giovani uno scopo, un senso alle loro vite.
Due riflessioni mi hanno in
particolare attratta nel libro e ve le ripropongo senza alcun commento. Dal
Contesto generale: “fu una guerra tra cristiani, a cui on fu possibile
applicare gli schemi medievali della guerra giusta e le sottigliezze della
teologia morale (abituata a identificare la guerra santa e il bene che deve
sempre affermarsi sul male), mentre la Santa Sede cercò di non disperdere le
possibilità di collegamento tra le parti in lotta e di favorire lo scambio di
prigionieri”.
“il conflitto era ritenuto
necessario (per realizzare l’unità nazionale) e inevitabile per gli equilibri
internazionali; questo sia per gli
Imperi Centrali ce per le potenze dell’Intesa. Il sotterraneo elogio
della guerra come fattore di modernizzazione deve considerare anche l’apertura
della strada ai totalitarismi a cominciare dal comunismo sovietico (i
bolscevichi furono i primi a vincere con la conquista del potere in Russia e
la liquidazione dello zar Nicola II),
seguiti poi, con motivazioni diverse, palesi ed occulte, dal fascismo e dal
nazionalsocialismo.
Da ultimo una riflessione:
“la prima lettura che incontriamo è quella che ha addebitato alla Prima guerra
le conseguenze della Seconda: un secolo breve, ma con guerra lunga (1914-1945).
Da non dimenticare mai
l’opera dei religiosi che affiancarono i civili e laici in questa temperie, dai
cappellani militari, alle suore come in questa bella foto inserita nel libro
riguardante l’Ospedale militare delle Dorotee.
CORINNA
PRAGA
La porta dei girasoli
“Tempo per Camminare
Tempo per Sedere
Tempo per Pensare”
Mi
piace premettere alle impressioni che mi ha suscitato la recente pubblicazione
di Corinna Praga (Erga edizioni, autunno 2019) queste sue parole premesse ad un
capitolo.
Corinna,
professoressa, attiva guida di Italia Nostra, che ha voluto verificare di
persona itinerari italiani già descritti dai Romani, a 90 anni trascorre 73
giorni in un ricovero per anziani. Di Corinna in passato ho già avuto la buona
sorte di recensire: La via del Sale (Sagep 1988), Genova per tutti noi- guida per il turismo senza barriere (La
Cruna, cooperativa sociale 2005) Genova
fuori le mura (Frilli 2006 Guide nato con il contributo di Italia Nostra), Tempo dell’altro ieri – Anni di guerra in
Liguria (Frilli Editori, collana I Tascabili, 2007) tutti con splendide
copertine.
Il
suo sobrio ed essenziale incipit crea un’atmosfera di suspense, quasi da libro
giallo o noir: “quando la lunga vita già trascorsa ti spinge dentro il tuo
novantesimo anno, credi di aver conosciuto tutto, del mondo e dei tuoi
contemporanei”.
Invece
si accorge che c’è “una parte dei tuoi simili, meno fortunati di altri e
lontani dalle tue consuete strade che, solamente in tarda età, le sofferenze e
il bisogno ti portano a conoscere”. Se ne accorge brutalmente - sola in casa,
perché vive sola - con un grande
“patatrac”, come un rumore di cose rotte, di mobili rovesciati. Non sa ancora
che come le diranno all’ospedale che la parte sinistra dello scheletro più
debole dell’altra ha ceduto, non ha retto al
“peso di un nuovo giorno”. Segue
la sua chiamata all’amica più cara, quindi con uno stile rapido, incisivo come
fosse una camminata atletica per tagliare un traguardo, ecco l’ambulanza, il
pronto soccorso, porte che si aprono e si chiudono, ascensori e di sfuggita la
porta bianca d’ingresso dove è passata in barella, che ha applicati sopra due
girasoli di cartone.
Ecco
spiegato il titolo del libro e Corinna poi ci racconta che i girasoli li aveva
visti nelle campagne di Francia dove il treno corre su binari interminabili, ma
questi fiori alteri sono legati al viaggio del sole nella parte del cielo
visibile agli uomini. Lo seguono fino alla scomparsa che li fa inesorabilmente
chiudere: perciò dalla mitologia greca alle atroci avventure del Basso
Medioevo, il girasole ha sempre significato tristezza e fine di ciò che è
scintillante e vivo. Perciò quella porta diventa inquietante per chi
sofferente l’attraversa.
Mentre
deve attendere l’intervento per la ricostruzione del femore infranto, Corinna
conosce un mondo ignorato: infermieri che ti chiamano “gioia” “tesoro”,
“amore” perché non ricordano il tuo
nome, parenti in visita e le compagne di degenza. Seguono ritratti umani e mi ha molto colpita quello della
“Comandante”. Così soprannominata perché autorevole e sempre a raccontare di
avventure, amicizie, avvocati…. Ma dimessa si diffonde a macchia d’olio la
notizia che non è stata riportata nella sua casa, bensì sistemata in un
ricovero per anziani assai lontano dalla città: era stata “tradita” dai parenti
e dall’avvocato di fiducia.
L
storia mi ha fatto tornare in mente un
ricordo personale che ancora mi addolora. Trovai in una Casa di riposo dove mi
recavo spesso per far compagnia ad una persona
una mia professoressa dei tempi dell’Università. Brillante assistente
del professor Francesco Della Corte, aveva l’Alzheimer e mi faceva tristezza
quando al cambio di turno delle infermiere veniva portata via di colpo dal film
o dal tiggì che stava guardando in Tv. Lei diceva paziente: “non importa tanto
si capisce come va a finire”. A me sembrava una mancanza di rispetto e di
umanità.
Un
giorno la Prof. alle quattro del pomeriggio uscì dalla Casa di riposo senza che
nessuno se ne accorgesse. Alla fermata del bus si fece regalare – con una scusa
– da ragazzine che attendevano il mezzo come lei e si recò alla sua casa in via
Guerrazzi a Genova. Il portiere quando la vide la trattenne facendola
conversare e intanto avvertì il fratello e quindi fu subito riportata alla Casa
di riposo.
Perché
non l’avevano fatta salire? Il suo appartamento era stato affittato (o venduto)
forse anche per pagare la retta (sono abbastanza impegnative quelle di tali
Istituti) e tutto questo alla sua insaputa con la scusante che con l’Alzheimer
non avrebbe potuto decidere al riguardo. E’ tristissimo se da vecchi, dopo una
vita da persona intelligente, non si viene nemmeno più interpellati su cosa si
vorrebbe fare: è un’autentica violenza.
Torno
al libro di Corinna per soffermarmi sulla cultura profonda che sale da questa
40 pagine e fin dalla copertina: all’interno si premette che questa è stata
ideata da Ornella Pittaluga ed è accompagnata da queste parole: “Un gruppo di
botanici dell’Università svedese di Umea ha scoperto in una zona impervia, un
abete rosso di 8000 anni. Ciò significa che quando il faraone Cheope costruiva
la sua piramide l’albero era già vecchio di oltre 3500 anni”. Questa notizia a
spiegare che il libro è stampato su carta ecologica che non proviene da foreste
primarie. Per on disturbare troppo gli alberi”.
Non
meno interessante la quarta di copertina che porta il ricordo della reporte
Nelle Bly (pseudonimo per Elisabeth
Jane Cochran) che fu la prima giornalista investigativa per conto di Joseph
Pulitzer, proprietario del New York World. Si fece rinchiudere nel manicomio
dell’isola di Blackwell per capire come vivevano le donne lì internate. In seguito su quell’esperienza pubblicò un
libro: “Dieci giorni in manicomio”. Corinna ha profittato del suo periodo tra
quella che con Dante si potrebbe definire “la perduta gente” al di là della
porta dei girasoli.
Con
Erga edizioni la ricercatrice e storica Corinna ha pubblicato Andar per creuse (che esce in edizione
del tutto rinnovata), Trentaquattro musei
all’aperto, La Mia Postumia ed altre antiche vie nelle valli Bisogno e
Polcevera e tra Voltri e Nervi.
Ma
c’è qualcosa in particolare di cui Le sono debitrice, quando mi venne a trovare
a casa portandomi un gigantesco strudel. Nella sua famiglia tutte le donne
confezionavano questo dolce legato alle origini dell’autrice, però tutte concludevano che quello di zia
Nerina (la mamma di Corinna) restava ineguagliabile. Vi do la ricetta.
Strudel di mele.
INGREDIENTI:
gr. 300 di farina Manitoba – gr. 150 di burro – 4 mele di media grandezza – gr.
100 di zucchero – 1 limone – gr. 25 di uvetta sultanina-.
OCCORRONO
INOLTRE: un piano di lavoro di almeno cent. 80 per 90 – una tovaglia di almeno
cent. 100 per 100 – un tegame da forno basso e largo – carta da forno – un
tegamino per far sciogliere il burro – una pennellessa da dolci – un foglio di
pellicola per cibi.
PREPARAZIONE:
Almeno sette ore prima della cottura si impastano gr. 250 di farina con un
cucchiaio d’olio e acqua quanto basta (meglio se tiepida).Si lavora l’impasto
fino a che raggiunga una consistenza elastica ideale, senza durezza, ma anche
senza appiccicosità. Formata una palla
omogeneamente sferica, la si avvolge nella pellicola e la si fa riposare
in frigo. Allo stesso modo si mette a bagno in una tazza l’uva sultanina.
Prima
di procedere alla confezione vera e propria, si fodera la teglia con carta da
forno che deve sbordare intorno di almeno cm. 2. Indi si pesa lo zucchero e vi
si grattugia sopra la scorza del limone che, preventivamente, sarà stato lavato
con lo spazzolino. Si mescola bene affinché il tutto sia bene amalgamato. Si
sbucciano poi le mele e le si grattugiano come nella preparazione per i
bambini. Quindi si stende la tovaglia sul tavolo, la si cosparge con i gr. 50
di farina rimanenti, che la mano distribuirà uniformemente su tutta la
superficie. A questo punto si ritira dal frigo la palla dell’impasto, la si
mette sulla tovaglia e la si rotola in modo che la farina presente l’asciughi
completamente. Poi, con il matterello, rigirandola più volte la si schiaccia
fino a che diventi un cerchio di cm. 20 di diametro e 1 di spessore.
Successivamente, con le mani,
cominciando dal centro si tira questo cerchio che diventa sempre più
sottile fino a ricoprire tutta la tovaglia (aiutandosi
con le nocche, sempre dal centro, si
ottiene il risultato della sfoglia più sottile). Se la tovaglia ha
disegni colorati, questi si devono vedere attraverso il velo della pasta. Nel
frattempo si metterà il burro nel tegamino, facendolo sciogliere a fuoco
lentissimo. Finita la “tiratura”, con un coltello si leva l’orlo grosso di
pasta tutt’intorno alla sfoglia (a meno che appunto con
le nocche lo si sia reso sottilissimo). Comunque con questa pasta
asportata si può cuocere, a parte, un piccolo biscotto.
E’
il momento, questo, di accendere il forno che si deve scaldare ad alta
temperatura per almeno quindici minuti.
Poi,
con la pennellessa, s’imburra tutta la superficie della sfoglia. Indi, con le
mani, si strizzano le mele affinché abbiano meno acqua e le si stendono, in una
colonna parallela al bordo del piano di lavoro, per la larghezza della sfoglia,
lasciando però libero un bell’orlo di pasta dalla parte dell’operatore. Alle
mele si aggiungono poi lo zucchero limonato e l’uvetta preventivamente scolata.
Con la striscia di sfoglia, lasciata libera dalla parte dell’operatore, si
ricopre il ripieno, e poi, sempre con la pennellessa, s’imburra anche questa
copertura.
Si
procede così, di avvolgimento in avvolgimento, finché la distesa di sfoglia
sarà terminata e l'ultimo suo lembo avrà chiuso ermeticamente il salamone.
Allora si avvicina la teglia, si depone gentilmente il salame nel tegame,
acciambellandolo con piccole volute nelle parti terminali e ungendo ancora il
tutto con il burro. Poi s’inforna a 200° circa per venti minuti, dopodiché si
giudicherà la cottura che non sempre può presentarsi uguale in tutti i forni.
Generalmente sono necessari trenta minuti. Appena sfornato, aiutandosi con la
carta da forno, si depone lo strudel su una superficie fresca (tavolo o
tagliere) e lo si spolvera abbondantemente di zucchero vanigliato.
Lo
strudel si può gustare anche tiepido, ma i buongustai lo preferiscono il giorno
dopo.
Mia variante (come tutte le aggiunte in rosso): “Se ci si aiuta con
la tovaglia si può acciambellare lo strudel e poi farlo rovesciare nel tegame.
Lo strudel a ciambella risulta più gustoso di quello dritto a rettangolo,
perché gli aromi nella cottura vanno da un lato all’altro e si potenziano in
tutti i punti”.
Anch'io infatti sono abile cuoca di strudel (per tradizione dalla
famiglia triestina di mio padre, che mia madre, emiliana, rielaborò: quindi la
mia versione è meno meticolosa e più
veloce di quella di Corinna). Però uno dei più grandi successi della mia
vita è stato quando…: al Gruppo Scout di Nervi dove “militavano” i miei
figli,si organizzò una vendita benefica di torte ai Parchi. Cucinai due strudel
che i figli portarono là al mattino presto e quando, dopo circa due ore, andai
per mangiarmi una fetta dei miei due strudel, erano entrambi già stati
spazzolati via voracemente. I miei due strudel erano stati i più venduti e non
ne restava più traccia.
Mauro Covacich
La città
Interiore
Questo libro riguarda una Trieste ormai perduta con personaggi che vi vissero tra gli anni
trenta e i novanta del Novecento, dove nacque l’autore il 6 aprile del 1965.
Attraverso le sue parole di triestino, che lì ha le sue radici e lì ha studiato
all’Università la Filosofia (bellissima disciplina che insegna a ragionare) ho
potuto ri-assaporare la mia città da un’angolazione diversa da quella con cui
ero abituata a pensarla. Sono nata a Trieste ma vi ho abitato solo dai miei
quattro anni fino ai sei dell’inizio della prima elementare. Ho in cuore mio
fratello con qualche anno più di me sul treno che ci strappava dalla nostra
città mentre guardando fuori dal finestrino cantava nostalgico “due rose in un
pittèr, un vecio fogolar, no esisti un altro paradiso al par de ti…"
Per
questo “amo” il libro di Covacich che mi è stato regalato da una profuga
istriana ed ora ne scrivo, pur non amando l’editrice La nave di Teseo, in quanto mi sembra pubblichi “gli amici degli
amici...".
Ricordo
una Bompiani dove c’era un ottimo signor Accame
(non ne ricordo il nome pur se c'è nella lettera che m'inviò per dirmi che
aveva ben apprezzato il manoscritto che gli mandai per pubblicazione e questo
per la sensibilità e l’intelligenza che rivelava il mio scritto ma ciò che
ostava alla pubblicazione era che allora
io non fossi una “firma”. Riprovai con Elisabetta Sgarbi che ne era diventata direttrice ma non potei
nemmeno parlarle. Un’efficiente segretaria asseriva che non bisognava
"disturbarla" come se due parole fossero “inqualificabile disturbo”.
Quanto birignao…
Ora recensisco La città interiore.
Per
far capire il contenuto del libro ripropongo frasi della quarta di copertina
che ne spiega la motivazione.
Recensione
-4 maggio 1945:
un bambino trasporta una sedie tra le macerie di Trieste, liberata dai
nazifascismi. Sta andando al comando alleato dove è suo padre sotto
interrogatorio e la sedia, appartenuta a Bottai, potrebbe scagionarlo.
-5 agosto 1945: I
terroristi di settembre nero hanno fatto saltare tre cisterne di petrolio. Un
bambino, tra le gambe del padre (=il bambino che trascinava la sedia ventisette
anni prima nella città liberata, contemplando dalle alture carsiche, la colonna
di fumo, gli chiede: “Papà, siamo in guerra?”
Perché
la sedia potrebbe scagionare il nonno Marcello Covacich? Gliela regalò il
gerarca fascista Giuseppe Bottai e
sotto il sedile c'è una targhetta con questa dedica: "Anno XIV dell'ERA
Fascista all'indomito avversario MC, l'onore delle armi".
Chi
interroga Marcello presso l'ufficio del comando alleato a Trieste gli pone un
fuoco di fila di domande: "dove ha imparato l'inglese che parla così bene?
E' sloveno? È comunista? Perché non va da loro, cioè dagli sloveni?"
Orgogliose
le risposte: "Sono nato a Divača a circa quindici chilometri da
Trieste, sono italiano, ho fatto il servizio militare con gli austriaci, parlo
l'inglese perché ho lavorato sui mercantili e poi sulle navi passeggeri, sono
comunista. Andare dagli slavi?, ma Voi sapete benissimo che Tito ha spedito i
comunisti italiani a riparare le strade di Lubiana pur di non averli tra i
piedi a Trieste".
Quindi
un colpo di teatro, uno dei primi cui ci abitua l'autore: chi interroga è James
Morris che arrivò a Trieste da capitano con le Forze Alleate e mantenne il nome James fino al 1972 benché già da
otto anni avesse iniziato il calvario chirurgico per la completa trasformazione
in donna...
Il
primo intervento nel 1964 in una clinica di Marrakech perché i medici
britannici si rifiutavano di farlo finché non avesse divorziato dalla moglie
Elisabeth da cui -tra l'altro- aveva avuto cinque figli. Poi nel 2008 le due
"donne" ottennero il divorzio quando cioè lo Stato garantì loro di
riformare il rapporto attraverso l'istituto dell'unione civile.
Fantasia o realtà di questo incontro raccontato nel libro?
E'
più che certo che l'autore conosce bene gli scritti di James, divenuto la donna
Jan Morris, al punto che ne cita questi malinconici versi: "One day I'll
grow up. I'll be a beautiful woman.../but for today I am a child".
Ma
l'autore non sta a dormire su questa prima storia umana che è come la sigla
dell'identità di Trieste, la stessa definita da Morris nel suo Trieste o del nessun luogo e con parole sue: "iperborea e
mediterranea, ma anche asburgica, italiana, slava, greca e profondamente
ebraica... L'essenza di Trieste consiste proprio nella sua inafferrabilità… una
città inconcepibile secondo etimologia: ‘concetto’ è cum-capere, prendere appropriarsi, possedere". Perciò
l'autore afferma che nell'etimologia stessa risuonano "sia il possesso che
la sua eco sessuale". Quindi Trieste è anche una città fisica, corporea,
ma queste osservazioni dell'autore fan capire che ha studiato filosofia e gli
piace "ragionare" come fosse cresciuto all'aurea scuola dei Sofisti, i filosofi e retori che più che certezze
coltivavano dubbi dato per ogni cosa si possono tenere due
discorsi, uno l'opposto dell'altro, ma altrettanto validi entrambi.
Ecco parole di un altro triestino, Scipio
Slataper, da Il mio Carso:
«Vorrei
dirvi: Sono nato in Carso, in una casupola col tetto di paglia annerita dalle
piove e dal fumo. C’era un cane spellacchiato e rauco, due oche infanghite
sotto il ventre, una zappa, una vanga,e dal mucchio di concio quasi senza
strame scolavano, dopo la piova, canaletti di succo brunastro.
«Vorrei
dirvi : Sono nato in Croazia, nella grande foresta di roveri. D’inverno tutto
era bianco di neve, la porta non si poteva aprire che a pertugio, e la notte
sentivo urlare i Iupi. Mamma m’infagottava con cenci le mani gonfie e rosse, e
io mi buttavo sul focolaio frignando per il freddo.
«Vorrei
dirvi: Sono nato nella pianura morava e correvo come una lepre per i lunghi
solchi, levando le cornacchie crocidanti. Mi buttavo a pancia a terra,
sradicavo una barbabietola e la rosicchiavo
terrosa.
Poi sono venuto qui, ho tentato di addomesticarmi, ho imparato l’italiano, ho
scelto gli amici fra i giovani più colti; ma presto devo
tornare in patria perché qui sto molto male.
«Vorrei
ingannarvi, ma non mi credereste. Voi siete scaltri e sagaci. Voi capireste
subito che sono un povero italiano..."
Sono
parole riportate in quel mitico libro della mia adolescenza Autoritratto Triestino di Alberto Spaini
(1963, Giordano Editore). Quel libro che mi mise tra le mani il libraio della
Di Stefano di Piazza Dante a Genova- Reparto "ragazzi" e a lui si rivolgeva sempre mio padre
chiedendogli quale libro potesse donarmi.
E
alla fine di questo scritto riporterò passi dal Blog n.4 del 2008 con titolo Trieste e gli Slavi dell'amico triestino
Giovanni Talleri che non è più dal 2010 e tali -Amici! -divennero per me lui e
la moglie e la figlia. Passi che riguardano la storia di Trieste così ignorata
dai più.
Talleri
ci ricorda che a Trieste Napoleone aveva favorito le scuole italiane (è con lui
che nasce il tricolore, la bandiera d'Italia) ed aveva chiuso quelle austriache,
ciò che aveva indotto Vienna, dopo la vittoria, a chiudere quelle italiane e
favorire in tutti i campi gli Sloveni.
Quanto
s'ignora la Storia!, ma uno scrittore del nostro tempo, non potrebbe riproporla
nei tanti dettagli o almeno nelle grandi linee senza risultare noioso alla
nostra odierna superficialità. Fa bene perciò Covacich a darci qualche notizia,
ma qui e là e in modo stringato, a darci solo spizzichi di Storia che ci
possono servire e che servono a comprendere le sue radici e gli uomini che
vissero gli anni di suo nonno e suo padre.
Ci
sono in queste prime pagine il ricordo dei suoi studi universitari, gli anni
più lieti pur se a suo padre alla bocciofila chiedevano. "A cossa servi la filosofia?"
I
frequentatori erano ferrovieri, autisti di autobus, i classici buontemponi da
dopolavoro. Ma per lui andare all'Università è stato: per prima cosa far
colazione con le fette biscottate già
imburrate, il kiwi tagliato a fette, le piccole carezze di mamma; per seconda
andar a sentire Gian Franco Gianotti che parlava degli stoici, o Cristina
Benussi che parlava di Calvino, o Claudio Magris che parlava di Kafka. Per per
Kafka scansò l'esame (e ne fu felice) ma ripara verso di lui nell'episodio
della bambola che racconta in questo sorprendente libro.
Eccola:
Kafka è ai suoi ultimi mesi con l'esofago compromesso per cui si nutre solo di
uva, ananas e birra. Vive con Dora a Berlino bel quartiere di Steligtz, il cui
giardino botanico è la meta della loro passeggiata pomeridiana.
(Notate
la cura di tutti questi particolari che ci portano a vedere i personaggi e le
loro azioni come fossimo con loro in uno stesso quadro!).
Kafka
vede una bimba in lacrime e le chiede perché. Lei risponde che ha perso la
bambola e lui, ormai di lungo corso nel saper raccontare storie: "no, che
non l'hai persa. La tua bambola è andata a fare un viaggio, me lo ha detto lei
perché te lo riferisca. Mi scriverà una lettera per te, mi ha detto proprio
così".
Tornato
a casa Kafka, come racconta Dora, si mette subito a scrivere la lettera perché
"deve aiutare la bambina a salvarsi dal dolore della mancanza. Oggi si
direbbe ‘elaborare il lutto’ ma in fondo vuol dire ‘mettersi in salvo’,
‘salvarsi’.”
Tenerissimo episodio che ci spiega l'arte di narrare di Covacich.
Dal semplice particolare risale fino ad una verità universale, filosofica.
Torno
all'essenza di Trieste, da cui l'autore è partito con James-Jan Morris perché
Covacich la definisce anche così: "Trieste assomiglia a Città del Capo.
Anche noi eravamo neri e bianchi. I neri erano gli sloveni, che si sono
adeguati a parlare la lingua dei dominatori”. Conclude, dopo brevi ma
penetranti riferimenti all'artista William Kentridge che ha dedicato a Zeno di
Svevo una serie di disegni esposti al Moma di New York: "noi e voi, affini,
perché siamo tutti cresciuti nell'odio...Le nostre storie sono identiche ‘odio
con una modica dose di mixité’.”
“Ma
Trieste assomiglia anche a Montréal. Speak white, parla bianco, dicevano
sprezzanti nel Québec i canadesi di lingua inglese contro coloro che si
esprimevano in francese nei luoghi pubblici. Laggiù i neri erano francesi, da
noi sloveni. E Gerusalemme, e Beirut, e Belfast? Sono città che senza il merito
di nessuno sono riuscite a trasformare l'odio in una forma di convivenza dove
si parla bianco".
Sono pensieri profondi, colti e senza il peso di una storia da
manuali, zeppa di date e fatti.
E
ancora voglio riprendere dal già ricordato Spaini come inizia il capitolo "Cos'era la Triestinità" (e siamo a p. 29 del
libro): "C'erano greci e armeni e turchi a Trieste, c'erano
siciliani e maltesi, c'erano tedeschi e slavi e ungheresi (e quando si dice
slavi bisogna distinguere fra sloveni e croati, e poi gli czechi, diversissimi,
venuti dalla lontana Boemia; c'erano con i siciliani, italiani di tutte le regioni
e inglesi e egiziani..."
Detto
così sembrerebbe "una Babele dove - sigla ancora Spaini - al contrario
dell'antica, in mille idiomi diversi tutti si intendevano benissimo. Invece non è vero nemmeno questo... Tutti parlavano triestino (cioè un idioma unico, una lingua
comune che avevano adottato nella città che li aveva adottati)
ed è questo irripetibile sentimento di comunanza che chi ha dovuto lasciare le
nostre terre e Trieste in particolare per andare in Italia nel tempo lo ha
fatto sentire "un italiano sbagliato"
come disse di sé Quarantotti Gambini.
Questo
dolentissimo senso di non appartenenza riaffiora nell'ultima pagina del mio
amato - perché grande educatore - Spaini: "Quando ci scandalizzava e ci addolorava la sorte dei
greci di Smirne, mai avremmo pensato che un giorno la stessa sorte sarebbe
capitata agli italiani della Venezia Giulia...
“A
un certo momento partono tutti, per i motivi più futili. Anzi la loro vita con
i suoi grandi e piccoli drammi continua, ed in essi quello
dell'esodo s'intreccia.
A
volte partono per liberarsi di un male che hanno dentro. E quando sono venuti
di qua la sofferenza insiste, più sorda, e non soffrono perché sono partiti, ma
perché non ne sanno trovare la ragione.
“E' una situazione in margine quella del profugo, come quella
del passeggero di una nave che affonda, eppure in lui la vita continua.
E’ un aspetto misterioso del mondo moderno, e non si comprende se non si
ricorda quello che - a noi di Trieste - avveniva cinquant'anni fa".
Anche Covacich parla dell'esodo: "Quattrocentomila persone, boat
people ante litteram, approdate a Trieste e da lì distribuite nei campi
profughi dell'intera penisola. In Istria restano meno di ventimila
italiani".
Covacich
ricostruisce l'esodo attraverso queste parole da
Materada di Fulvio Tomizza che fa dire al protagonista istriano
del romanzo: "Qui da noi sono venuti tutti, dapprima gli austriaci, poi
gli italiani, dopo i tedeschi, infine siete venuti voialtri. Tutti se ne sono
andati ed erano più forti di voi. Io stesso ho visto
cadere prima l'aquila, poi il fascio e la croce uncinata. Perché un giorno non
dovrebbe cadere anche la falce e il martello?"
Materada
- conclude Covacich - racconta quanto sia lontana Trieste per il protagonista,
la sua famiglia e tutti coloro che hanno caricato sul carro "un sacco di
piccole cose che non servivano a niente" nella speranza di portare con sé
la vita. E invece la vita è rimasta qui, strappata via dal loro corpo che si
rimpiccioliva all'orizzonte".
Sono storie di uomini come quella che irrompe già a p. 34 delle 229 che costituiscono il libro
(e notate come già per Spaini è fin dalla prime pagine- in
entrambi le prime trenta- che il libro si connota nella sua essenza).
Ecco
dunque in Covacich la storia di Antonio Bibalo, il compositore triestino
che ha rivoluzionato la musica scandinava "uomo bandiera dell'Europa”.
Forse individuo meno nobile di Spinelli e degli autori del Manifesto di
Ventotene, eppure con una storia che andrebbe imparata a memoria nelle scuole,
fatta risuonare nelle aree ricreatrici del Parlamento di Strasburgo, tradotta
nelle lingue di 27 Paesi.
Con
quello spiccato senso teatrale che abbiamo imparato a riconoscere in Covacich
la storia ci viene da lui presentata in scene.
1)
– 1943 - Bibalo è un soldato detenuto nel carcere di Peschiera ma arrivano i
tedeschi, lo liberano e lo arruolano. Mentre i giovani italiani sono divisi tra
resistenti e repubblichini, lui indossa la divisa della Wehrmacht.
2)-
1944- battaglia di Montecassino: trova un bambino, Bubi, tra le macerie. Piange
senza gambe. Per pietà gli spara ma ne resterà ossessionato per la vita. Tra
quelle macerie trova anche in una casa un pianoforte abbandonato e si mette a
suonare Schubert, Sonata n.22. Lo
sorprendono quattro negroni che lo applaudono, poi lo arrestano. Finisce in un
carcere dell'Alabama. Sceglie di essere lì uno "straniero", perché
non si trova a suo agio con gli italiani, calabresi e napoletani di cui non
capisce nemmeno come parlano. Sta con i tedeschi con cui si è trovato bene.
3)
- 1946 - si è appena diplomato con lode al conservatorio Tartini: si esibisce a
Trieste con un repertorio di nuova
musica jugoslava come gli hanno suggerito gli organizzatori del concerto. Il
giorno dopo Il “Giornale Alleato”
titola: "Bibalo traditore" stroncandogli la carriera in città.
4)-
Ancora a Trieste, vive in una stanzetta che la madre ha concesso a lui e alla
moglie, la quale però se la sta spassando con gli americani che sono in città.
(Ho
letto la stessa cosa della prima moglie di un altro scrittore triestino: si
vede che le triestine avevano fame di soldi e di bella vita ma fu lo stesso in
altre parti d'Italia. E triestine o no, si vede che le donne si dividono sempre
in due categorie: le oneste e le altre. Oppure: oggi tante donne sono
indipendenti e se capitasse qualche altra sventura del genere non so se si
adatterebbero a far le "mantenute". Forse l'indipendenza le ha
portate avanti, riscattate, ma bisognerebbe constatarla sul campo e speriamo
non succeda).
In
quella Trieste ormai per lui così amara, Bibalo dice alla madre: "sono
senza sigarette", esce e sale sul treno che va a Ventimiglia. In Francia,
a Marsiglia, lo arrestano, poi liberato è avvicinato da un soldato della Legion
straniera e vi si arruola. Lì viene assegnato alla compagnie de musique per suonare al circolo ufficiali. “Può essere
- ipotizza Covacich - che ad Addis Abeba Bibalo abbia conosciuto Bottai, allora
solo sergente ma che doveva aver accesso al circolo ufficiali. (Non ci viene
spiegato cosa succeda e se l'incontro ci sia stato ed abbia prodotto qualcosa
di buono. Interessante questo Bottai, quello stesso della sedia...)
5)
- C'è una coppia di londinesi in crociera sul Toscana, piroscafo del Lloyd Triestino che fa la spola tra Mediterraneo ed Australia: Bibalo vi
lavora suonando al pianoforte. La coppia lo invita a Londra e dopo un paio di
mesi lui è al Trinity College a studiare composizione e diventa un compositore di
fama.
6)- E sesta scena – ma non è ancora la vera
sesta scena come ci avverte l'autore-
Bibalo arriva a Larvik un
paesino dei fiordi meridionali della Norvegia con al compagna Grete, artista
danese che lo ha convinto al viaggio perché in Scandinavia esistono sussidi a
progetto per i giovani artisti. Ha una casetta di legno, a strapiombo sul mare
e lì prova "l'amore per una terra non sua".
Sesta scena - la vera -: Bibalo incontra Henry Miller.
A Larvik in un "pub" un amico pittore ha dato a Bibalo Il Sorriso ai piedi di una scala, un racconto minore
di Miller che illustra il calvario di un clown
dotatissimo e incompreso.
(Non
sarà che un po' Covacich s'innamori anche lui di questo clown proprio per tali
caratteristiche che accomunano gli scrittori di storie, i più dotati? Non a
caso Alda Merini diceva “non se esistono le ali delle farfalle, ma è la polvere che fa volare”)
Bibalo
si è innamorato del clown e scrive una lettera a Miller. Questi, ormai
settantenne, dà i diritti d'autore al musicista di cui prima non ha mai sentito
parlare.
-6
aprile 1965 (ed è il giorno della nascita di Covacich, quindi pare ci sia una
sorta di trasmigrazione di anime da Bibalo a Miller a lui, così almeno pare a
me): Il Sorriso ai piedi della scala debutta alla Staatsoper di Amburgo –un grande
successo! Bibalo è
ancora sconosciuto e ci si interroga se esista davvero. Però ormai è
"scoperto", "acclamato come uno dei maestri del Novecento in
tutto il Nord Europa”.
Per
inciso:iIn Italia le sue opere non saranno quasi mai eseguite e nei quattro volumi dell'Enciclopedia Ricordi (Bibbia
musicale) non gli viene dedicata neanche una riga. (Anche questa
è la pena della triestinità, l’essere sempre stranieri in patria).
Nel
2001 il sindaco consegna a Bibalo, a Trieste, il San Giusto d'oro ma fruga tra
gli appunti perché non sa cosa dire di lui.
“Forse
– poteva dire- che Bibalo è stato il “clown incompreso” ma che la sua fama
europea è dovuta non solo all’innegabile talento, ma anche “a quella roccia
carsica” che aveva in animo e che mai gli permise di franare”.
Questa
è una mia considerazione, ma la sintesi che ho tratto dalle pagine che Covacich
dedica alla storia non ha la sua grazia narrativa, che la fa digerire nella
complessità, anzi la fa assaporare e fa venir voglia di centellinarla. Un
esempio delle tante storie e dei tanti personaggi, umili o colti che ricorrono
nel libro. Volevo fin contarli per verificare quanti sono, però entrano ed
escono come dalle quinte di un grande Teatro senza annoiare e testimoniano che
Trieste è stata una città colta, animata da tanti protagonisti.
E
tra i protagonisti umili di Covacich metto anche la sua nonna, la moglie del
nonno paterno. Donna di Muro Lucano, donna in pantaloni e fumatrice, donna che
scriveva i suoi pensieri in una piccola agenda delle Assicurazioni Generali.
L'autore dice che ha fatto un'opera di pornografia nel pubblicarli
perché ha voluto editare nel 2011 quei pensieri dell'agenda. Ma ci sono da
parte sua due pagine deliziose, d'amore vero per questa donna orgogliosa. In
esse inizia ogni paragrafo con un “Lei che...” .
Lei
che mi mette a scaldare i vestiti sulla stufa; Lei che fa un piccolo segno sul
pandispagna per sistemare meglio i due strati; Lei che mi cede il quadernetto
dei conti; Lei che esercita da parrucchiera nel bagno di casa.
Commenta
con simpatia da nipote del tutto innamorato di Lei: "Nessuno sa dove abbia
imparato. In collegio non t'insegnano certo a fare la parrucchiera, il mestiere
delle traviate per eccellenza". Lei, detta la “taliana”, con la “i”
cherimane mangiata nella pronuncia: e “italiani” sono i meridionali, ma anche i
veneti o i milanesi, in fondo “italiani” sono tutti coloro che stanno a ovest
di Monfalcone.
Il
nipotino Covacich aveva nove anni quando parlava con questa sua amata nonna. La
ricorda con i gomiti sul davanzale, lo sguardo sulle “picchiate folli delle
rondini nelle sere d'estate” e da quell'agendina verde riporto - per concludere
- questo pensiero di Lei: “Trieste, 20 -5- 1948. Oggi il mio bambino appreso da
suo padre molte legante mià fatto molta compassione e ò pianto tutto il
giorno".
Finisco
con un'immagine del "mio” castello di Sam Giusto quando ancora c'era
quella splendida vite vergine rossa d'autunno che però smangiava i muri causa
umidità e quindi fu tagliata. Che nostalgia della "mia" vite
vergine e come vorrei che qualcuno dei
miei sei nipoti un giorno mi ricordasse così come è stata ricordata nonna
Lisetta, con così tanto amore.
NOTE
1)Mio padre e il libro. Il regalo per mio padre era sempre un libro (stava con un libro
in mano quando il dentista doveva togliere a me o a mio fratello Ferruccio
qualche dente, stava ritto proprio davanti a noi in quel "frangente
doloroso"). A mio padre devo la collezione di tutti i classici Utet,
Italiani, Latini, Greci e Stranieri e il Grande Dizionario Enciclopedico e il
Grande Dizionario della Lingua Italiana (in XXI Volumi) che poi in qualche modo
pensando alla fine della vita dovrò collocare (:sono diventati come figli pur
se non li ho letti tutti e abbastanza. Me ne vergogno. Povero papà mio se
sapesse quanto poco li ho frequentati e quanti sacrifici devono essere costati
a lui!)
2)
Dal Blog di Giovanni Talleri, che è anche autore
di un libro importante e controcorrente come è sempre stato lui
Una corsa nel tempo- Storia del
confine orientale di Trieste(2004,LintEditoriale)
3) Mauro Covacich è autore di La sposa (2014 finalista allo Strega) e
di romanzi tutti pubblicati da La nave di
Teseo: i tre che compongono il ciclo delle stelle “A perdifiato (2003), Fiona
(2005), Prima di sparire (2008)”, poi A nome tuo (2011),La città interiore (2017, finalista al
Premio Campiello). Di che è questo cuore
(2019). Nel 1999 l’Università di Vienna gli ha conferito l’Abraham Woursell
Prize.
Oliver Sachs
e il Parkinson
E’ grazie ad alcuni scritti di questo neurologo che ho meglio
capito questa malattia da cui mia madre fu affetta per 25 anni fino alla morte
ad 83 anni.
Ida Ragaglia Bressani, mia
madre a 19 anni, alla Festa dell’Uva a Bobbio. Mio padre le acquistò l’intero
cestino d’uva e nacque la loro storia d’amore, durata 56 anni. Fu afflitta dal
Morbo di Parkinson per 25 anni, visse quasi fino a 83 e papà, che l’assisteva
senza delegare a nessuno, la precedette di cinque anni.
E questo è il libro delle
loro 1000 lettere (1937-1945), da me donate all’Archivio di Pieve Santo Stefano
(AR). Le lettere datano dal loro innamoramento a Bobbio fino alla prigionia a
Saida in Algeria di mio padre, il triestino capitano Edgardo Bressani.
L’epistolario corredato da
miei piccoli quadretti storici per far capire la situazione di quel tempo, è
stato tra i dieci finalisti a Pieve Santo Stefano, appunto al Premio dei Diari,
nel 2002, con titolo scelto dalla Giuria e tratto da una frase di una lettera
di papà a mamma: “Tu sei per me l’aria che respiro”.
Poi è stato pubblicato con la Lint editoriale triestina ed è giunto
alla seconda edizione nella seconda copertina che avrei voluto nei colori della
sabbia del deserto.
OLIVER SACKS
IL FIUME DELLA COSCIENZA
Nel risvolto di copertina si
precisa che questa raccolta di scritti, rimasta sulla scrivania dell'Autore
fino a due settimane prima della sua morte, ben rappresenta i suoi interessi: botanica, anatomia animale, chimica, storia della scienza,
filosofia, psicologia. Ha avuto anche passione letteraria,
diventando scrittore di testi singolari e illuminanti.
Sacks
considerava suoi maestri: Charles
Darwin, Willliam James, Sigmund Freud.
A
farla breve ho molto caro il suo L'isola
dei senza colore, dove nella seconda parte parla di Guam, la più meridionale delle Marianne,
nella Micronesia (Pacifico Occidentale). Durante la II Guerra Mondiale fu
importante per la sua posizione
strategica tra Usa ed Asia e nel Pacific National Historical Park si trova Alan
Beach che un tempo fu teatro di battaglia. Guam è stata protagonista
di recenti tensioni tra Usa e Corea del Nord. Per la Storia, conquistata prima
dagli spagnoli e poi dagli Stati Uniti, nella II Guerra mondiale fu attaccata
dai giapponesi, tornò poi in mano agli americani, che nel 1950 la dichiararono
“Territorio non incorporato”.
L'isola
è anche nota per una forma di sclerosi laterale amiotrofica, la
“Lytico-bodig disease” che si diffuse dopo la II Guerra Mondiale
quando gli abitanti attuarono una caccia
incontrollata alle volpi volanti, specie di pipistrelli, per
cibarsene. (Vi siete mai chiesti perché fino alla leggenda di Dracula Vampiro
ad ora del Coronavirus che sarebbe passato da un pipistrello all’uomo, questi
godano così cattiva fama?). Le volpi volanti, simil-pipistrelli si cibavano di
frutti delle Cicadee contenenti amminoacidi degenerati e attraverso loro si diffuse la cosiddetta demenza di Guam.
Sacks
si chiese se la malattia fosse in relazione con il morbo
di Parkinson. Si recò nell'isola e vide moltissime persone
handicappate nell'andatura, che si bloccavano di colpo come per il
freezing caratteristico del Parkinson,
Morbo anche definito "Disordini del Movimento".
Per
il Parkinson ad ora s'ignora la causa
messa in relazione proprio a Guam
con qualcosa conseguente alla guerra come i residui delle bombe, altrove con i
pesticidi o altro.
Una
prima descrizione del Morbo è in un testo di medicina indiana con riferimento
al 5000 a.C., un'altra è in un documento cinese risalente a 2500 anni or sono.
Il nome deriva da James Parkinson, un farmacista e chirurgo londinese del XIX
secolo, che ne descrisse i sintomi nel suo Trattato sulla
paralisi agitante.
Nel
rileggere Il Fiume della Coscienza, mi
accorgo che Sacks vi parla anche del Morbo di Parkinson (il tema che più avevo
focalizzato al tempo della malattia della mia mamma) però il libro è molto più
vario e nasce, a fine della sua vita, anche come un bilancio professionale e
come un ringraziamento a suoi tre maestri, perché tali li considera e di cui
ripeto i nomi: Charles Darwin, William James, Sigmund Freud.
-Darwin e una riflessione che gli dedica il figlio
Francis: "Uno dei più grandi servizi resi da mio
padre allo studio della storia naturale è il risveglio della teolologia",
cioè la dottrina filosofica del finalismo. Di rincalzo a lui Sacks osserva:
"Si dice che Dio sta nei dettagli, ma per Darwin non era Dio quanto
piuttosto la Selezione Naturale che, agendo
nel corso di milioni di anni, risplendeva dai dettagli - inintellegibili e
privi di senso a meno che non li si considerasse alla luce della storia
dell'evoluzione-". Ci dice ancora Sacks che proprio la teoria evolutiva
gli fece vedere il mondo come una superficie trasparente attraverso la quale
era visibile l'intera storia della vita. "A glorius accident" come la
definì Stephen Jay Gould: non fissata o predeterminata ma sempre suscettibile
di cambiamento e di nuove esperienze.
Una mia riflessione: Ciò non significa negare Dio perché portando
il discorso ad una dimensione non solo terrestre, si potrebbe identificare
l'evoluzione con Dio stesso e Dio come Coscienza dell'evoluzione.
Sacks
ama così tanto i suoi maestri che non manca di approfondirne aspetti della
vita, non cessa mai di cercare l'uomo,
radice dello scienziato. Di Darwin ci ricorda che al ritorno dalle
Galápagos fu invalido per 40 anni e, a volte, trascorreva giornate vomitando,
confinato sul divano, in vecchiaia ebbe anche problemi cardiaci". Però
continuò ad essere intellettualmente pieno di energia e dopo le
Origini scrisse altri dieci libri. Non solo, negli anni Cinquanta aveva messo al lavoro cinque dei suoi figli
facendo loro tracciare le rotte di volo dei maschi dei bombi (insetti
imenettori che come le api raccolgono nettare e polline per nutrire i loro
piccoli): a interessarlo era il modo in cui le
angiosperme si erano adattate così da servirsi degli insetti per la
fecondazione. Darwin era cresciuto in una famiglia di botanici
ma Sacks stesso ha avuto una maestra di botanica, proprio in casa, nella madre.
Questa indicandogli le magnolie del loro giardino gli spiegò che erano tra le
angiosperme più antiche comparse circa cento milioni di anni or sono e che per
l'impollinazione si erano affidate ad un insetto più antico delle api (che non
erano ancora insetti evoluti) cioè ad un coleottero. Infatti
quando il fiore della magnolia inizia ad invecchiare al suo centro si vedono
tutti quei minuscoli puntini neri che sono coleotteri.
Darwin, da studente universitario a Cambridge,
seguiva regolarmente solo le lezioni di un botanico, J.S. Henslow. Fu questo
suo professore a raccomandarlo per l'incarico sul Beagle
( brigantino che lo porta in viaggio alle Galápagos dove raccoglie gli oltre
200 esemplari di piante che diventano "la collezione
naturalistica di organismi viventi più importante di tutta la storia della
scienza").
(ecco un acquarello del 1841 dello
storico brigantino della Royal Navy)
Concludo
su Darwin -attraverso Sacks- con il ricordo dell'Albero della Vita che tracciò
nel 1837 in uno dei suoi taccuini asserendo: “Dall'albero si deduce che gli
esseri umani sono tutti imparentati tra loro, con le antropomorfe (cioè le
scimmie), con gli altri animali e
anche con le piante (oggi infatti sappiamo che piante e animali condividono il
settanta per cento del loro Dna). E sappiamo che la
variazione è il grande motore della selezione naturale.
-William James, (psicologo e filosofo statunitense di
origine irlandese, 1842-1910), autore dei Principi di Psicologia affascinò
Sacks con la sua indagine sulla percezione del tempo.
Gli
riporta alla mente quando da bambino detestava la scuola a causa d’insegnanti
soporiferi per cui continuava a guardare l'orologio e le lancette sembravano
lentissime, mentre quando entrava nel piccolo laboratorio chimico allestito in
casa, si accorgeva che s’era fatta sera quando non riusciva più a distinguere
bene gli oggetti.
Da
qui, con un salto "acrobatico”, ci porta nelle esperienze pre-morte, cioè
nella percezione del tempo di persone minacciate da un pericolo mortale che poi
hanno narrato la loro esperienza. In pochi attimi il tempo si dilata e in molti
casi si ha una fulminea rivisitazione di tutto il proprio passato.
"Queste
esperienze di quasi-morte sono
contraddistinte da un sensazione d'impotenza e passività, ma anche
da un'impressionante accelerazione del pensiero e della reattività che consente
talvolta di superare il pericolo".
Per
William James esempi di distacco dal
tempo normale sono forniti dall'uso di droghe. Nella Parigi degli anni quaranta
queste erano in voga tra artisti come Gautier, Baudelaire, Balzac e il medico
Moreau. E la distorsione del tempo è ben rappresentata dall'aneddoto di due
hippy che seduti al Golden Gate Park si sono fatti una canna di hashish. Passa
un jet sulle loro teste e uno dice all'altro: "Cavolo, pensavo che non se
ne sarebbe più andato".
Considerate l’arte del narrare: lo scrittore si serve di aneddoti
per chiarire il pensiero dello scienziato.
Allo
stesso modo in alcune crisi epilettiche, dette anche ‘esperienziali’, un
ricordo o un'allucinazione si dilata, come fosse un tempo lunghissimo e fin con
un significato metafisico. Dostoevskij nei Demoni scrisse: "Ci sono dei
secondi e non ne vengono che a cinque o sei per volta, in cui sentite la presenza di un'armonia eterna, compiutamente
raggiunta... In quei
cinque secondi io vivo una vita e per essi darei tutta la mia vita, perché vale
la spesa". Ma questo non è forse anche il significato
dell'estasi e quindi dell'aver trovato Dio, magari un Dio diverso da quello che
ci raccontano i sacri testi, ma pur sempre qualcosa d'infinitamente alto ed
universale che ci trascende? Cui l’uomo tende perché ne ha fame e sete, perché
lo sente come fine ultimo?
Sacks
però, da scienziato, ci parla di interazioni tra gruppi neuronali nella
corteccia cerebrale, i quali gruppi - decine o centinaia di migliaia -
costituiscono il correlato neuronale della coscienza. Attraverso questi
processi prendono il volo anche i Sogni, mentre sostanze come farmaci o droghe
ad azione depressiva, come gli oppiacei e i barbiturici, hanno l'effetto
opposto e producono un'inibizione del pensiero e del movimento. E qui entra nel
momento del suo lavoro che lo portò a scrivere Risvegli da cui fu tratto
anche l’omonimo film del 1990 con
interpeti Robin Williams e Robert De Niro.
Di
Williams, che morì suicida, scrive: “Le sue raffiche di associazioni e battute
esplosive e incandescenti sembrano decollare e sfrecciare alla velocità di un
razzo. Eppure qui abbiamo presumibilmente a che fare non con la velocità di singole cellule nervose e di semplici
circuiti, ma con reti neurali di ordine decisamente superiore, che vanno oltre
la complessità del più grande supercomputer…D’altra parte noi esseri umani –
anche i più fulminei tra noi – siamo limitati, nella velocità, da fondamentali determinanti neurali, cellule con frequenza
di scarica limitata…” Robin William gli sarebbe grato per esser così
magnificamente ricordato, però le condizioni di superiorità mentale sono anche
quelle di una solitudine che può uccidere.
Sacks nel 1966 andò a lavorare al Beth Abraham, un
ospedale del Bronx con persone con patologie croniche: tutti pazienti
sopravvissuti alla grande pandemia di encefalite
letargica che dilagò in tutto il mondo negli anni tra il 1917 e il 18.
Dei
milioni che contrassero questa malattia del sonno, circa un terzo morì negli
stadi acuti, alcuni sopravvissuti svilupparono poi una
forma estrema di parkinsonismo che li aveva rallentati o perfino pietrificati
per decenni". Nel Parkinson comune, la dopamina, un
neurotrasmettitore essenziale per la normalità di movimenti e pensiero, si
riduce anche al 15%, ma nel
parkinsonismo postencefalico i livelli
di dopamina sono quasi impossibili da rilevare.
Nel
1969 avvia su quei pazienti la sperimentazione
della L-dopa capace di elevare i livelli di dopamina. Al principio il
trattamento ripristinò una velocità e una libertà di movimento normali, ma dopo
cinque giorni di L-dopa una paziente Hester Y. mostrò una tale accelerazione
del movimento e del parlare che sembrava un film accelerato (come se il proiettore
girasse troppo in fretta). Una volta chiese ai suoi allievi di giocare a palla
con lei e Hester rimandava la palla a tale velocità che colpiva le mani degli studenti ancora aperte nel
lancio.
Freud è stato uno dei tre maestri che Sacks
riconosce all'origine dei suoi studi e di tanti approfondimenti: e – da subito
- annota che si conosce Freud come padre della psicanalisi ma nei suoi primi vent'anni di studi (1876/96) fu neurologo ed
anatomista.
Freud
soffriva di emicrania classica e nel suo
studio di neurologo visitò molti pazienti con lo stesso problema. Pensò fin di
scrivere un libro su questo tema e poi si limitò a fissarlo in “Dieci Punti
Assodati” che inviò al suo amico
Wilhelm Fliess nel 1895 e definì l’emicrania
come "un'economia della forza nervosa" un qualcosa capace di far
vedere lucidamente un progetto che poi si porterà a termine.
E
lo dice sempre nella lettera all'amico Fliess: "In una laboriosa notte
della scorsa settimana... io sono riuscito a penetrare con lo sguardo dal più piccolo particolare delle nevrosi
sino alle condizioni della coscienza. Ogni cosa al suo giusto
posto...Naturalmente non sto più in me dalla contentezza".
Per
associazione di idee, affezionata al mito greco (mi laureai in Greco a Lettere
classiche) mi viene in mente l'emicrania di
Zeus da cui esce Minerva la combattiva dea della Sapienza. Mi
vien da pensare una volta di più a quanto sia antico il mondo e come il nostro
pensiero si riproponga seppur in forme diverse ma da un'unica origine e come
sia possibile rintracciarlo, mutatis mutandis, da tempi molto più antichi ad
oggi.
Con
Freud entra nel concetto della "fallibilità della memoria" e lo fa
ricordando un suo primo libro del 1997, Zio Tungsteno, in cui racconta un
episodio del 1940/41, tempo di guerra a Londra dove viveva: nel giardino vicino cadde una bomba di mezza
tonnellata, senza esplodere. Quella notte tutta la famiglia se ne strisciò via
in pigiama per andare nell'appartamento del cugino Walter. Ci fu anche un'altra
occasione con un'altra bomba che cadde dietro casa. Suo padre intervenne con un
piccolo estintore e i fratelli con secchi d'acqua. Scrisse entrambi gli episodi
nel libro ma suo fratello Michael, con cui poi ne parlò, gli disse che
all'epoca della seconda bomba erano entrambi a Braefield e ne avevano appreso
solo da una lettera del fratello maggiore che Sacks aveva memorizzato come
se fosse stato presente.
Ricorda
pure che nel 1980 durante la campagna
presidenziale Ronald Reagan raccontò la
storia di un pilota che durante la II Guerra Mondiale ordinò all'equipaggio di
lanciarsi con il paracadute dopo esser stati colpiti. Il giovane mitragliere
era stato ferito così gravemente che non poteva farlo e il pilota gli disse:
"Non importa, porteremo giù l'aereo insieme". Nel ricordare Reagan
piangeva però la stampa si accorse che era una scena di A wing
and a prayer, film del 1944.
Commenta
Sacks: è sorprendente come alcuni dei nostri ricordi più vivi siano in realtà
episodi mai accaduti e quindi ci fa esaminare il
problema del plagio che può essere inconsapevole e come ciò
possa essere una memoria ritentiva di fatti mai accaduti. Cita un libro del
1995 Frantumi
in cui l'autore Binjamin Wilkominski, ebreo polacco, descrive gli anni
dell'infanzia passati in un campo di concentramento. Gran successo editoriale,
ma si scoprì che il racconto era solo
una re-invenzione romantica della sua infanzia, quale reazione all'abbandono da
parte di sua madre, all'età di soli sette anni. Nella sua poliedrica cultura
che spazia in diversi campi cita pure un film di Hitchcock, l'unico tratto da
una storia vera, The wrong man, che fa emergere il tema dell'orientamento dei testimoni. Ricorda che dai
processi alle streghe a Salem e dall'Inquisizione, passando per i processi
sovietici degli anni Trenta, fino ad Abu Ghraib, abbiamo tutta un'ampia gamma
di interrogatori estremi e fin di torture per estorcere confessioni religiose o
politiche. E quindi ci ricorda come nel 1984
di Orwell, il protagonista Winston
finisca per tradire tutto ciò che rappresenta per lui vita ed ideali fino ad
amare il Grande Fratello.
Uno
dei capitoli che più mi ha affascinato è Il sé creativo
partendo dalle prime esperienze dei bambini per concludere che tutti prendiamo a prestito da altri e
dalla cultura che è intorno a noi, ma il punto resta quello che si sa fare di
ciò che è imitato o derivato, quanto profondamente lo si assimili rendendolo
nostro.
Infine
voglio concludere ancora con il Parkinson: nel suo libro Musicofilia racconta come
un paziente parkinsoniano nel pieno di un blocco, ascoltando musica può
riprendere a muoversi, perfino a ballare. I neurologi definiscono il
parkinsonismo anche “una balbuzie cinetica” e il movimento normale come
“melodia cinetica”.
Suggerisco
di considerare questo pensiero riguardo la Coscienza: da una coscienza primaria,
relativamente semplice (come la fuga di una animale quando ascolta un rumore
che lo atterrisce, esperienza che da allora in poi assimila per difesa), siamo passati con un “ gran balzo” alla
Coscienza umana: comparsa del linguaggio, della consapevolezza di sé, di un
senso esplicito del passato e del futuro.
L’ultimo
gradino che Sacks non include, ma è pur tanto evidente, quel gran “balzo”,
s’illumina nella tensione al cielo, nell’estasi descritta da Dostoewskij, che
ci permette di vedere con chiarezza il progetto che era in noi, anche il
progetto che ci riguarda nell’economia dell’evoluzione e dell’universo.
Splendido, sorprendente, coltissimo libro che in tanti ameranno se
lo leggono!
Adelphi
Edizioni, la prima nel 2107, la seconda nel 2018.
Altri
libri di Sacks: Allucinazioni, Diario di Oaxaca, Emicrania, Gratitudine, In movimento,
L’isola dei senza colore, L’occhio della mente, L’uomo che scambiò sua moglie
per un cappello, Musicofilia, Risvegli, Su una gamba sola, Un antropologo su
Marte, Vedere Voci, Zio Tungsteno.
MARZIO PICCININI
PARKINSON
IL TREMORE E LA SPERANZA
Il
libro di Marzio Piccinini lo lessi giunto alla seconda edizione nel 1994: era
stato pubblicato l'anno prima quando era morto mio padre di ictus, d cui fu
colpito una volta che di notte accompagnava in bagno la mamma, malata di
Parkinson. Caddero a terra: lei sopra di lui. Un amico bobbiese e una cugina
sfondarono la porta di casa dato che i miei genitori non rispondevano alle
telefonate con cui li chiamavo ripetutamente
fin dal mattino di quel 2 settembre 1993: anniversario del loro 56esimo
anno di matrimonio. Poi la corsa all'ospedale.
Quando
allertati ci precipitammo là, un medico di Bobbio, molto bravo e stimato, mi disse: "Per sua madre
niente di nuovo, ma per suo padre bisogna vedere cosa gli succede entro tre
giorni, cioè se l'ictus replica pur se per ora è cosciente". Lo
trasferimmo in ambulanza a Genova (mio padre mai e poi mai avrebbe voluto esser
curato a Bobbio, era prevenuto forse per ricordi di un lontano passato di
subito dopo la guerra e preferiva le grandi città). Papà la mattina del terzo
giorno entrò in coma e morì un mese dopo proprio quando a me sembrava che
rispondesse a ciò che gli dicevo. Il medico che lo assisteva disse:
"Paradossalmente, dato che è in coma irreversibile, sembra che lei abbia
ragione e invece..., aveva ragione la sua consolidata esperienza di casi
simili".
Marzio
Piccinini ha voluto descrivere nel libro gli esordi del suo Parkinson che lo
colpì a 42 anni, quando aveva davanti ancora otto anni lavorativi per la laurea
del figlio e dieci per finire di pagare il mutuo della casa.
Lo
fa in modo scientifico e quindi anche se il Parkison si dice sia diverso per
ogni paziente, questa sua descrizione progressiva dei sintomi aiuta molto chi
si trova in una situazione simile
a capire cosa succederà.
Ci
sono un paio di riflessioni che possono interessare tutti i malati e i loro
familiari. Il suo atteggiamento, prima della malattia, era sempre stato
improntato al terrore per "un'infermità che ti costringa a dover dipendere
dagli altri". Poi, dopo la prima degenza in ospedale (ed erano già passati
alcuni anni dalla diagnosi), l’aver verificato de visu quanta gente molto più giovane di lui fosse colpita da mali
inguaribili, però molti di essi vivevano con serenità la loro condizione. Fa
osservare: "come non rimanere sconvolti davanti ad un giovane di vent'anni
con un tumore non operabile? Oppure come non chiedersi il perché del dolore,
quando passando vicino al reparto pediatrico, senti il pianto dei
bambini?"
E
anche: "Da allora si è acuita in me l'insofferenza per i malati immaginari
e verso chi scambia un raffreddore per un malanno da fine del mondo".
Lui
che alla prima diagnosi pensa: "dovrò..., farò", ha però la buona sorte di trovare al suo fianco la
moglie, con cui era sposato da 17 anni e che da subito imposta il discorso sul
"cosa avrebbero dovuto fare insieme". In un secondo ricovero in
ospedale (questi per i parkinsoniani si rendono talvolta necessari per meglio
calibrare le terapie mediche), scoprirà condivisione, solidarietà, amicizia con
altri sofferenti come lui e che, entrati nella malattia da più breve tempo, gli
chiedono consiglio.
Ciò
gli darà l'idea di mettere la sua esperienza lavorativa al servizio dell'AIP,
l'associazione italiana che si occupa anche di organizzare convegni, di dar
notizia dei ritrovati, di mettere in contatto tra loro i malati di Parkinson:
entra così a far parte del suo Consiglio direttivo.
L'esordio
di questa malattia è tardivo: in Italia si stima siano 230/250mila i malati,
pari all'1-2% della popolazione, sopra i 60 anni e al 3-5% della popolazione
sopra gli 85. E' la malattia neuro-degenerativa più diffusa dopo l'Alzheimer e nella sua fase finale è spesso
accompagnata da una degenerazione cognitiva simile a quella di questi malati.
Talvolta però si manifesta anche precocemente, intorno ai 40 anni come nel caso
di Piccinini: a degenerare è il sistema nervoso, preposto al controllo dei
movimenti, dell'equilibrio e della deambulazione.
Sarebbe
importantissima la diagnosi precoce, perché intervenendo il prima possibile con
farmaci idonei se ne rallenta il decorso e soprattutto si tengono a bada bene i
primi sintomi. Ciò spesso non avviene per alcuni motivi: i primi disturbi che
procura vengono attribuiti ad altre cause, non solo dal paziente, ma anche da
molti medici. (Quando arriva la diagnosi corretta, è difficile individuare
l'inizio che può risalire anche a due anni prima). E quando il morbo è diagnosticato,
alcuni pazienti si vergognano tanto da rinchiudersi in casa per evitare di
esser visti tremare.
"Molte
volte - come spiega Piccinini non è il
paziente a notare che qualcosa sta cambiando, ma qualcuno vicino a lui come
coniuge, figli, colleghi di lavoro. La reazione dell'interessato è spesso di
sorpresa, se non di fastidio".
Tra
i cambiamenti: in posizione eretta il malato tiene spalle
curvate,
il tronco piegato in avanti, le braccia leggermente flesse
sui
gomiti, le ginocchia lievemente piegate. Da seduto s'inclina
lateralmente.
Quando cammina non "pendola" le
braccia.
L'autore
- per farci capire come il malato inizialmente non riesca a dar peso ai sintomi
(come è stato anche per lui, messo in guardia da un collega con cui si
recava a New York per viaggi
commissionati dalla loro Ditta, il quale riuscì a convincerlo soprattutto
facendogli notare come fosse diventato "lento" mentre lui teneva
moltissimo ad essere più che efficiente proprio nel suo lavoro) - ci racconta
questo episodio riguardante Cecil Todes.
Questi si accorse di aver qualcosa al braccio sinistro per il malfunzionamento
del suo orologio svizzero di precisione. Lo inviò a riparare più volte senza
che si scoprisse causa alcuna, ma quando spostò l'orologio sul polso destro,
esso riprese ad andare benissimo. Solo un anno dopo il braccio sinistro iniziò
a dolergli come avesse dei reumatismi e di lì la scoperta di essere ammalato.
Piccinini
descrive così le cause del morbo: "si sviluppa in seguito al
danneggiamento di due zone del cervello chiamate Sostanza Nera e Striato. Le
cellule della Sostanza Nera producono una sostanza chimica, la dopamina che
agisce da messaggero chimico sulle cellule nervose dello Striato, portando
informazioni fondamentali per il controllo dei movimenti, dell'equilibrio,
della marcia e della postura del corpo. Il corpo umano è un sistema dotato di
una centrale operativa: il cervello, che riceve segnali dall'esterno tramite
sensori: vista, udito, tatto, ecc. Il cervello li elabora e trasmette i comandi
agli organi di attuazione, cioè ai muscoli. Lo fa tramite una rete di
connessione che sono i nervi. Quando la dopamina si riduce causa un guasto
"operativo" della centrale, si verifica la morte delle cellule
nervose della Sostanza Nera. Il sistema va in tilt e quando la perdita di
cellule raggiunge l'80% iniziano a manifestarsi i primi sintomi del Morbo.
Piccinini
dopo i rilievi di postura, camminata e lentezza che gli ha mosso il collega, a
diagnosi ormai certa, inizia a soffrire di dolori e di un peggioramento progressivo
della scrittura, quindi di difficoltà nel parlare e d'inespressività del volto.
Ma
da uomo combattivo e anche motivato dai fini che vuole raggiungere per la
famiglia e che non gli permettono d'interrompere così giovane il suo lavoro, e
li raggiungerà, inizia la sua "sfida" alla malattia che comunque
prosegue inesorabilmente e non si può arrestare. Però la si può vivere meglio e
un poco rallentarla: la disciplina dei farmaci, la fisioterapia, la capacità di
amministrarsi per stabilire pause di riposo, quindi la scoperta di un mondo di
altri sofferenti come lui e di lì il servizio a loro con una rinnovata forza
proprio attinta da loro.
Ho
recensito una volta un libro molto interessante di un'antropologa che narrava
come i luoghi di antichi oracoli (v. Delfi)
fossero in realtà posti di riunione e
incontro per molti in cerca di una speranza e la trovavano nell'essere in
comunione: questo diventava di per sé un fatto taumaturgico. Penso sia anche
l'effetto “Lourdes”, dove, dopo aver
visto la sofferenza moltiplicata all'ennesimo, ogni proprio dolore si
ridimensiona.
ORNELLA
RIGODANZ0
L’OSPITE INDESIDERATO
Questo libro di Ornella, a differenza del precedente di
Piccinini, scientifico, attento ad ogni particolare che possa servire a far
capire la malattia, è una sorta di diario sulla malattia ed è tutto al
femminile: fa capire come sia diversa l’indole donna/uomo.
Inizia con una poesia (l’autrice ha questo dono).
SPERARE E' LA
NOSTRA FORZA
La speranza è un
raggio di sole
è la
forza della vita
è attesa.
La speranza è la capacità
di superare la caduta,
le difficoltà
La speranza è un angelo
che
ci sorregge
nei momenti
difficili
e ci
spinge a guardare
verso il cielo.
La speranza ci rende
liberi o prigionieri
sta a noi
non tradurla in illusione.
Per
capire meglio Ornella, l’autrice, parto da un suo tenerissimo ricordo. Le è
nata una nipotina, la seconda, e la figlia ha acconsentito -con un po' di
preoccupazione ed evidente imbarazzo- a mettergliela tra le braccia e prima ha
voluto che si sedesse. Da in piedi non gliela avrebbe data. Lei confessa che si
è sentita umiliata. Una volta che era con la nipote piccolina in braccio e
tremava, l’altra nipotina, di poco più grande, le ha chiesto: "Nonna, ma perché la scuoti così tanto, guarda che
basta poco per addormentarla”. Le ha risposto: “La nonna ha le braccia che si
emozionano quando tiene in braccio un bimbo”. E la nipotina - meraviglioso
candore dell’innocenza-: “Allora nonna, quando hai finito con lei, puoi fare la
stessa cosa con me”. Desiderava l’abbraccio “emozionante”, non voleva essere
esclusa, non voleva sentirsi un po’ gelosa.
L’intelligenza della
scrittrice risalta in questa sua frase: “Certo sono una nonna strana, che adora
le sue nipotine … Ma l’unica cosa che sapevo fare con loro - non poteva infatti mettersi a giocare
seduta a terra come vogliono i bimbi -
era raccontare delle storie da me inventate,
creando curiosità e attenzione nella loro mente”.
Ornella
si è ammalata di Parkinson a 56 anni quando ancora lavorava e se si confidava
con le colleghe, cosa che non voleva fare in casa per non preoccupare i cari,
queste la tranquillizzavano. “Sei stressata, devi star tranquilla, hai bisogno
di riposo”. Lei sentiva che qualcosa non andava e quando comunica in famiglia che farà un esame per
accertare se è Parkinson, vede il marito impallidire e la figlia che la osserva
incredula. Hanno già avuto in passato un brutto periodo: quattro anni di visite
in diversi ospedali, perché la figlia era afflitta da celiachia e stava male,
ma i medici non avevano individuato quella patologia, allora poco conosciuta.
Il suo pensiero mentre dice
ai suoi cari dell’esame che dovrà sostenere è: “Devo
farmi forza e incoraggiarli, ma dentro di me il cuore scoppia”.
Da donna sa subito prendere
in pugno la situazione e lo fa per amore dei suoi. Dirà più avanti verso la
fine di questo diario di sole 72 pagine e proprio rivolgendosi al marito: “Non aver paura, sono sempre io anche se malata, sono sempre io. Tu
sei il mio coraggio, la mia forza, abbracciami (è
una donna ancor giovane e desidera questo contatto fisico), non aver paura, tu sei la migliore cura se combatti con me,
perché se stai vicino a me, il dolore si supera con il tuo amore”. E dice ancora: “Ho paura di
crearti un peso che per te sarà difficile per tutto quello che dovrai fare per
aiutarmi”. (Il Morbo colpisce tutta la
famiglia e tutta la famiglia ha bisogno di sostegno e rassicurazione).
Bellissima dichiarazione d’amore quella di Ornella, perché da donna ricorda di dover esser lei
ad aver forza per due, di dover educare ancora una volta l’uomo che le è fianco
come fosse un piccolo figlio.
Non è il
mio un discorso se sia più coraggiosa la donna o l’uomo, però ricordo sempre
una frase illuminante di mia suocera che ebbe quattro figli maschi: “Se gli
uomini dovessero partorire, saremmo molti di meno al mondo!” La donna per sua
natura è più preparata ad affrontare il dolore fisico, a farsene carico, è
stato il suo compito millenario.
Da
giornalista ricordo che purtroppo, nell’informarmi sull’incidenza del cancro al
seno, scoprii che molti mariti, dovendo affrontare insieme alla moglie il
calvario di quell’esperienza, non se la sentirono, preferirono andare per i
fatti loro, chiamandosi fuori. Una verità scomoda ed onore a chi non ha fatto
così: bisogna anche saper esser uomini, anche un po’ “guerrieri”.
Ai miei figli maschietti,
da bambini leggevo libri come “Riccardo
cuor di leone” ed ora uno di loro, che ama sempre scherzare, in occasione
dell’attuale epidemia di coronavirus e
della sua corsa a far provviste per la famiglia, mi ha detto: “Sai mamma, io
sono un po’ un cuor di coniglio”.
Tornando
all’esperienza di Ornella non solo cerca di rinfrancare i suoi ma corre su
Internet per avere tutte le informazioni possibili sul Morbo.
Sono passati 27 anni dal
libro scritto da Marzio Piccinini a questo di Ornella che mi è arrivato
velocissimo a casa tramite Amazon, infatti è stato edito
da Amazon Italia Logistica S.r.l.: i mezzi
di comunicazioni si sono evoluti, ma non l’educazione e purtroppo anche quella di qualche dottore. Quando infatti
Ornella deve trovare il suo neurologo di fiducia, s’imbatte in medici capaci di
dedicarle solo dieci minuti a visita e
che non hanno voglia di ascoltare le sue sofferenze. Esasperata dice: “io non sono un protocollo, malata di Parkinson”.
E’
verissima questa sua osservazione e il medico dovrebbe ricordarsi che non deve
solo curare un corpo, ma deve cercare di essere un medico anche dell’anima. Una
sua parola di comprensione, d’incoraggiamento, può essere la spinta a star
meglio quasi più della specifica medicina.
Ornella,
che pure si definisce “una guerriera”, attraversa una prima fase di chiusura,
del rintanarsi in casa per non essere vista tremare, compatita, ecc. Poi però
pensa che gli atleti della para-olimpiadi vengono applauditi perché hanno
scelto di combattere. Lei lo fa contro questo nemico, questo intruso, diventato
fin amico, perché tanto l’ha aiutata a riflettere su di sé in modo profondo.
Una riflessione campeggia su tutte: “Il Parkinson non si può gestire privatamente come accade ad esempio con il
diabete perché i movimenti motori suscitano reazioni negli altri e fanno
sentire il malato a disagio nel sentirsi osservato”.
C’è un
altro tenero episodio nel libro quando Ornella convince una giovane affetta dal
Morbo e che non vuole uscire perché i suoi movimenti involontari la fanno
sembrare “una pazza”, a fare una passeggiata con lei.
Riguardo poi la
considerazione che la malattia affligga solo gli anziani, ricorda un giovane di
42 anni, incontrato durante uno dei ricoveri che si rendono necessari per
riequilibrare le terapie e per sottoporsi ad esami. Le è sembrato di una forza
indescrivibile nel raccontarle con semplicità la sua malattia. Come lui Ornella sente di dover lottare per tutti coloro che non sanno quanto possa
esser alta la probabilità che mister Parkinson entri prepotentemente nella loro
vita senza chiedere il permesso e s’impadronisca di loro.
Importantissimo
per Lei è stato anche incontrare l’Associazione e chiede, ormai ben consapevole
anche delle mancanze, interventi legislativi per frenare il più possibile la
perdita del lavoro per gli ammalati e per le cure a carico dei familiari.
Però
preferisco ricordarla con sue parole che ce la rimandano come in un’istantanea:
“Avete mai provato a stare sulla riva del mare e sentire gli schizzi sul viso,
sentire gli odori… Io guerriera non mi fermerò, mi dedicherò alle mie passioni:
ricamare, leggere, ballare…Tu non riuscirai a fermarmi sono una guerriera e
combatterò…finché non accadrà qualcosa che mi costringerà a fermarmi”.
ORNELLA RIGODANZO
CAREGIVER...quasi eroi
Il lettore mi scuserà se antepongo alla
recensione una lettera di mio figlio Edgardo, che mi chiede in dono i due libri
di Ornella, ricordando quando assistevo mia madre malata di Parkinson (25 anni
dalla diagnosi) e lo feci solo nell’ultimo quinquennio dato che mio padre era
mancato: prima se ne era sempre occupato lui senza mai voler delegare.
Non solo, poiché
un libro raggiunge il suo top se è utile mi piace anche
ricordare parole di una persona amica che da questo ha imparato come vestirsi per aver più scioltezza nei movimenti e non esser
aiutato da altri.
Mi sembra più esauriente di tante parole
riportare ora alcune frasi di questo secondo
agile, ma esauriente libretto di Ornella.
1)
la prima
difficoltà di un care-giver è quando all’improvviso si trova a far parte di quelli che assistono i propri cari.
2)
rinunciano ad
una loro vita.
3)
a volte hanno
difficoltà a
trovare lavori compatibili
con la propria situazione, ma l’importante è
oggi! (bellissima questa frase che contiene un alto senso del
dovere, ciò che un tempo si chiamava abnegazione).
4)
il care-giver talvolta rischia di non
accorgersi che la madre (o il padre)
sta cambiando causa la malattia: il Parkinson consuma e fa vivere
pensando solo a lui.
Ma ecco il risvolto positivo
pur nelle difficoltà: “noi
care-giver abbiamo una luce nell’anima,
un ‘cuore d’oro’, solo che in certi momenti ci spegniamo per il troppo carico.
Ma noi siamo anche ‘angeli con una sola ala’ e dobbiamo e sappiamo aiutare il
malato a non morire dentro”.
Permettete un ricordo personale: tutte le
estati portavo mia madre ormai vedova e malata di un Parkinson sempre più
invalidante, a Bobbio sua città d’origine dove mio padre aveva fatto costruire
“per lei” la casa di campagna. Una
settimana continuò a piovere e poiché per entrare o uscire da casa c’è una
scala d’accesso, sia dall’ingresso, sia dal terrazzo al prato, rimanemmo
segregate in casa. Non potevo rischiare di aiutarla a scendere per quei gradini
scivolosi. E’ stata una liberazione quando si è presentato Ottavio, il signore
che taglia il prato, e mi ha potuto aiutare.
Ma vale, prima di ogni difficoltà, questo
pensiero del libro: “quando il dolore bussa alla porta del cuore
non si può non andar ad aprire”.
Però un giorno che la figlia care-giver,
protagonista di questo libro, arriva dalla mamma che non vede da un po’, si
trova a constatare le prime evidenze della malattia.
“La donna energica che ricordava si
muoveva ora come un automa, le braccia rigide, le dita delle mani dritte e
soprattutto il suo caro volto ‘come una maschera, rigido, inespressivo’.
Sorrideva ma solo con la bocca, lo sguardo era vuoto”.
La figlia compie ricerche sul morbo e una
cosa le dà consolazione e fiducia: “la mamma avrebbe conservato sensi e
intelligenza” ed era fondamentale per la
sua vita quotidiana farla camminare, il movimento era più che mai necessario.
Dice
la care-giver: “quando penso di non farcela più la rabbia dentro va alle
stelle, una rabbia nei confronti della vita”.
E
considerate quanto siano belle queste parole dalla figlia alla madre quando la
vede sconfortata: “la felicità è fatta di piccole cose preziose come il profumo
del caffè al mattino, le note di una canzone, un libro dai colori che scaldano
il cuore, gli aromi di una cucina, la poesia dei pittori della felicità, il
musetto del tuo cane. Basta chiudere gli occhi per accendere i sensi”.
Purtroppo
cambia anche la voce della malata: in certi momenti si fa fievole,
incomprensibile.
Il
controcanto della mamma alle parole della figlia suona così con umorismo: “a
volte mi sembra di essere un’aspirapolvere, perché anch’io ho i miei momenti
‘on’ e ‘off’, purtroppo”.
Continua
la figlia nel diario a due voci: “il neurologo mi ha consigliato di delegare in
momenti estremi qualcuno che possa seguire la mamma”.
La
mamma: “non mi riconosco più, che senso ha una vita vissuta così?. Tutti i
giorni, tutte le ore… per anni…non è umano”.
Arriva
un capitolo molto importante: “L’aiuto delle
Associazioni e Diritti del Malato”.
La
figlia lamenta che ogni volta che si recava alla Asl a chiedere un presidio per
la mamma, mancava sempre qualcosa: un’impegnativa, un certificato, una
fotocopia, una firma…”
Com’è
vero! Ricordo la volta che andai per la mia per chiedere un materassino ad
acqua che doveva scongiurare le piaghe da decubito. Avevo delegato qualcuno
all’assistenza di lei per qualche ora e mi trovai davanti ad una coda infinita.
Stavano per chiudere gli sportelli e per non essere costretta a tornare chiesi
se potevo avere ciò che mi serviva, allungando il certificato per mamma a chi
stava servendo.
La
risposta fu: “chissà come le ottengono queste certificazioni…”
Cioè
l’impiegato mi accusava di dolo o malafede. Uscii che urlavo e poiché l’ufficio era nell’ex manicomio un
gruppo di persone mi stava guardando ed uno chiese ad un altro: “cos’ha quella
signora?” La risposta: “sarà una pazza”. Poi mi sfogai con una zia che spesso
veniva a trovare mamma e lei disse: “perché non hai invitato quell’impiegato a
venire a vedere di persona tua madre. Avrebbe capito, non poteva non capire”.
Però
a proposito di quelle Associazioni che devono e possono aiutare, la
condivisione con altri figli che si fanno carico dei loro genitori prima
diventa un acuire il dolore fin quasi al rigetto di quel contatto umano, Solo
in un secondo momento diventa un aiuto reale con la risposta a tanti problemi
che altri hanno già affrontato. Purtroppo ed è una constatazione: “in Italia
contrariamente ad altri paesi europei, manca “una Legge
sul Care-giving” con misure concrete ed agevolazioni a favore
dei familiari che mettono la propria vita in standby per prendersi cura a tempo
pieno dei propri familiari.
Segue
un altro capitolo molto importante, il decimo, intitolato “Quando
arriva il momento di chiedere aiuto”. Ad un certo punto, quando
si capisce che da soli non ce la si fa, si capisce pure che “accettare un
aiuto, non è abbandonare la propria madre, ma imparare a tener alto l’umore
nonostante le difficoltà, a preservare la nostra salute fisica per continuare
ad esserle di aiuto”. Questo per evitare il “burn-out”,
un termine che il neurologo spiega alla figlia e che significa non cadere in
uno stato di “esaurimento emotivo, fisico e morale” generato da un carico
eccessivo di stress e che può impedire di
continuare l’assistenza di cui
mamma ha più che mai bisogno.
Cosa
succede infatti ad un care-giver? Gli
succede che diventa mani, gambe, braccia, voce del proprio caro che assiste ed
è questa una delle ragioni per cui il Parkinson viene definito anche “malattia della famiglia” perché ad un certo
punto ti coinvolge e coinvolge tutti color che ti stanno intorno, tutti i tuoi
cari.
Dopo
questa amara, ma lucida, constatazione un capitolo che è di aiuto a tanti altri
e non necessariamente malati di Parkinson: i tanti che hanno
bisogno di capire come semplificare la propria vita per non dover diventare
dipendenti da altri.
“Usare
abiti che si chiudono davanti o di lato, mai dietro; le chiusure lampo possono
essere agganciate con un uncino fissato su un manico; per indossare calzini o
scarpe basta portare da seduti una gamba sull’altra (cosa che facilita
l’operazione); le scarpe non abbiano mai stringhe ma velcro o si possono usare
mocassini; il cellulare può essere legato al collo; per alzarsi poggiare prima
i palmi delle mani o sul letto o sui braccioli di una poltrona; per cucinare
mettersi con una sedia davanti ai fornelli ed avere a portata di mano tutte le
cose che possono servire; per mangiare usare posate dal manico grosso; per bere
usare un bicchiere con gambo alto e grosso che si possa ben afferrare; quando
si riposa mettere un cuscino che sollevi le ginocchia.
Ma
la conclusione è che per tutte queste cose non esiste una tecnica giusta o
sbagliata. Una tecnica diventa giusta in base a chi la utilizza ed è questo che
bisogna capire ed osservare per facilitare la vita del malato. Bisogna sempre ricordargli una cosa
ed è il messaggio che si ricava da tutto il percorso del libro:
la
nostra vita è comunque bella
e possiamo godere
pur se malati o sofferenti tanti,
tanti suoi doni.
GIGLIO REDUZZI
IL MEGLIO DI…
Giglio Reduzzi, per
ragioni di lavoro, è stato un "globetrotter": ha girato un terzo dei
Paesi che compongono i cinque continenti.
E il termine da me usato
non è riduttivo: non ha solo usato molti voli per i suoi spostamenti, ma da
questi ha sempre elaborato interessanti, penetranti, chiarissime riflessioni.
Non solo, le ha anche
scritte in 60 saggi.
Li ha pubblicati dal 1996
al 2019, con Youcanprint, Self-publishing, elogiando la possibilità di non
dover più sottostare ai diktat di tanti Editori che chiedono di ridurre il
numero delle pagine o approfondire capitoli e soprattutto fanno attendere per
la pubblicazione tempi quasi biblici.
Di questi saggi 7 sono in
inglese, 5 bilingue, 34 riguardano la Politica, 15 la Religione, 11 argomenti
vari.
Il
meglio di, il saggio n.61, è stato pubblicato nel 2020 e
anche se Giglio dice argutamente alludendo al titolo: "Vuol dire che è proprio
finita", in realtà precisa che ha voluto farlo
stampare per due categorie di lettori:
- quelli
che vogliono leggere solo in forma cartacea per sentire l'odore della carta, il
fruscio delle pagine…
- quelli
che li hanno già letti in versione digitale sul suo Blog (www.giglioreduzzi.com) ma hanno anche piacere di averli come libro,
cioè come una testimonianza sempre sotto mano.
Dice proprio Cicerone
nel Pro Archia: "Il libro rende più belli i momenti felici,
offre rifugio e conforto in quelli dolorosi. In casa ci dà gioia, fuori non è
d'impaccio, con noi passa in veglia la notte, ci accompagna nei viaggi, con
noi trascorre la villeggiatura".
Come inizia Giglio a
presentarci il suo meglio?
La
Politica.
Da questa-una delle due passioni-incomincia. Dal risvolto di copertina: “Non se uno
porta la cravatta e la pochette coordinate, allora è un uomo di classe... Non
ricordo di aver mai assistito ad una tediosa e lunghissima elencazione da parte
del Premier dimissionario (="Giuseppi" Conte) di tutte le malefatte compiute da colui che
gli sedeva accanto (=Matteo Salvini). Eppure è ciò che ha fatto lo scorso agosto l'uomo con cravatta e
pochette.-
Sarà per questo che
ormai io stessa cambio canale quando lo vedo e ho fatto ciò con altri
presidenti del Consiglio e della Repubblica. Mi sono fermata ancora ad
ascoltare, quasi reverente, Carlo Maria Azeglio Ciampi, poi ho usato il
telecomando per cancellare dalla mia vista il “faziosissimo" Napolitano e
altri come lui o quelli che hanno caro solo il proprio tornaconto e anche tra i
politici ce ne sono.
Riguardo il nostro
"Giuseppi" riporto parole di Mario Giordano (da La Verità del 23 marzo 2020): "Perché il premier Giuseppe Conte,
contro tutti e contro tutto, persino un po' anche contro Bruxelles, continua a
portare avanti la folle idea dell'adesione dell'Italia al Mes (presunto Fondo
salva Stati in realtà Fondo sfonda Stati)? Io ho un sospetto: perché sa
benissimo che in quel caso ci vorrebbe un governo stabile. Così, lui
spera di mantenere la cadrega, anche se questo comporta il completo
asservimento e svuotamento dell'Italia. Ce ne ricorderemo?"
C'era pure, ed è tra
quelli per cui cambio canale un ministro dei beni culturali che criticava a
tutto spiano Berlusconi e le “olgettine”. Poi, in quel periodo lasciò la moglie
e le tre figlie, per accasarsi con una compagna di fede politica.
Ahimé la tanto osannata
Nilde Jotti continua ad insegnare: da noi le amanti sono sempre state come le
favorite di certi Re di Francia o le mogli di Enrico VIII, buone sì
per un fumettone, ma anche tanto riverite pubblicamente.
Sempre per la
Politica, Giglio critica la scelta del Presidente Mattarella che ha
portato all'attuale governo e scrive:
"La strada
parlamentare era percorribile solo in presenza di una rigorosa
corrispondenza tra composizione del Parlamento e volontà popolare.
"La Costituzione
vieta il vincolo di mandato per cui i parlamentari sono liberi, una volta
eletti, d’iscriversi al gruppo che vogliono e possono persino passare dalla
maggioranza all'opposizione.
"Una lettura non
puramente formalistica delle elezioni europee avrebbe dovuto portare a
risolvere la crisi con elezioni nazionali anticipate...
"Lo dimostra l'esito univoco di tutte le consultazioni elettorali che sono state effettuate nel frattempo...
Per la
Religione.Ora considero dal libro i comportamenti della
Chiesa:Cosa si devono aspettare da questa i cattolici italiani di antica data?
Sono due le date ricordate da Giglio:
·
27 dicembre 2019, sui giornali la notizia che undici
cristiani sono stati decapitati in Nigeria il giorno di Natale;
·
29 dicembre, Papa Francesco ci ricorda che a tavola non si devono
usare i telefonini…
Se anche il
Papa si è dimenticato nei giorni seguenti alla prima data citata di
esecrare (anzi avrebbe dovuto maledire!) ciò che accadde in Nigeria, in
passato, il
12 maggio del 2013, ha pur sempre canonizzato 813 persone, cioè gli abitanti
di Otranto decapitati dai saraceni nel 1480 per non essersi convertiti
all'Islam. Quindi continuiamo a sperare nella sua buona fede...
C'è però un'altra notizia
che Giglio raccoglie con certosina pazienza di acuto osservatore:
In pompa magna, il 15 novembre 2019, il
Papa con la massima autorità sunnita, l'Imam Ahmed Al Tayeb
dell'Università del Cairo, ha presentato una struttura che
dovrebbe essere realizzata entro quest'anno: l'Abrahamic Family House ad Abu
Dhabi. Ospiterà in un unico giardino una sinagoga, una moschea, una
chiesa....
Come precisa l'Autore,
potrebbe chiamarsi "Chrislam", cioè una fusione
di Cristianesimo, Ebraismo ed Islam, ma forse potrebbe - penso- essere un
tentativo di far convivere, gomito a gomito, per meglio conoscersi e
reciprocamente apprezzarsi e quindi per ritrovare un cammino comune di fede nel
Dio unico, tanti uomini di buona volontà in terra.
Un po' come avrebbe
dovuto essere per Gerusalemme che però non è stata la pacifica città santa
delle religioni monoteiste, anzi...
Stando molto più terra a
terra riguardo il discorso religioso, tra le esortazioni del Papa è primaria
quella di Francesco sull'accoglienza dei migranti.
Giglio osserva con
arguzia che il tanto citato codice del mare non
può applicarsi ai naufragi
programmati in ogni dettaglio come quelli di cui sono vittime gli attuali
migranti. Il naufragio intenzionale è una fattispecie giuridica
sconosciuta e come tale non può essere tutelata.
Precisa: "Siamo
forse l'unico Paese al mondo che garantisce cure mediche gratis ai non
residenti. In Canada, Paese democratico, il non residente che si
presenta al Pronto Soccorso deve pagare un ticket anche di alcune centinaia di
dollari, ticket che non tiene conto della situazione economica del paziente”. In Canada lo straniero deve
pagare per non aver contribuito alla creazione del sistema Sanitario Nazionale.
Precisa pure: "Un
governo che abbia a cuore gli interessi delle persone dovrebbe sistemare la
situazione dei migranti arrivati nel nostro Paese, ma gli addetti
all'accoglienza fanno durare l'esame fino a due anni perché durante questa fase
gli esaminatori traggono maggiori benefici degli esaminandi”.
Per di più poiché con i
barconi stanno ora arrivando donne più che uomini, gli africani - sempre
secondo Giglio - devono essersi accorti che da noi le donne non solo hanno gli
stessi diritti degli uomini, ma meritano qualche attenzione in più, quindi le
usano come testa di ponte per
facilitare l'ingresso dei maschi (la grande maggioranza).
Sempre riguardo l'accoglienza non manca di sottolineare che la
re-distribuzione europea dei migranti non potrà mai funzionare. Lo
screening è fatto quando sono già sbarcati: donne incinte, malati e
bambini toccano sempre a noi e spesso andiamo a prenderli con l'elicottero.
Mentre gli stati europei che - bontà loro - hanno accettato la
re-distribuzione fanno un secondo screening a casa loro e scelgono e
possono rimandare chi non gli va bene.
“Il flusso di migranti
che dalla Francia viene in Italia è più numeroso di quello in senso contrario”.
Infine i migranti non
sono tutti uguali.
Quelli che vengono
dall'Asia e scappano dalle guerre (come dalla Siria) sono veri profughi.
Però noi non li accogliamo e li affidiamo ad Erdogan, noto per le sue
"amorevoli cure".
Quelli che vengono
dall'Africa e non scappano dalle guerre, li dobbiamo accogliere “perché
in Libia li trattano male”.
Giglio si scatena pure nell’infelice destabilizzazione dell'Africa del
nord che si affaccia sul Mediterraneo ad opera d'interessi vari come quelli
francesi.
Da Le soir approche
e déjà le jour baisse del cardinal Robert Sarah, che
osserva in varie Posizioni (leggi:pagine) come,favorendo
l’emigrazione di tanti giovani,
l’Africa si privi delle risorse necessarie al suo sviluppo;
(pos. 4276) “La mondializzazione vuol separare l’uomo dalle sue
radici, facendone un apolide, un senza patria, un senza terra";
(pos. 4321) “Ogni giorno centinaia di africani muoiono nelle acque del Mediterraneo"; “In Francia la giungla di Calais è una vergogna";
(pos. 4310) “Il generale Gomart, vecchio dirigente del servizio
informazioni militari francese, a riposo dal maggio 2017, spiegava che ‘l’invasione dell'Europa
da parte dei migranti è programmata, controllata e accettata. Nulla del
traffico nel Mediterraneo è ignorato dalle autorità francesi, sia militari, che
civili’.”
Giglio avanza anche
un’idea niente male, sempre a proposito dei migranti. Molti italiani mal
sopportano di vivere quasi in comunità con gente che preferisce
continuare alla propria maniera, con i propri usi e costumi. Quindi
perché non costituire delle “Islam
town"?
E con lo spirito di
humour che gli è proprio, annota: “L’unica volta che la Chiesa si è fatta
carico di loro, se li è lasciati scappare tutti, già il giorno dopo". Non solo sottolinea che
nonostante le esortazioni della Chiesa “un conto è andare in territorio Masai a
scavare un pozzo, un conto portarsi a casa un Masai".
L’idea di queste Town
solo abitate da islamici gli è venuta dalla considerazione più che mai seria
che il risultato delle massicce immigrazioni è il conflitto culturale. Nelle
Islam town invece potrebbero organizzarsi a loro piacimento: “Pregare Allah,
circoncidere i figli, dirimere le loro questioni in base alla Sharia, i
genitori obbligare i figli a sposarsi con chi scelgono per loro, e
così via..." Ecco la diversa concezione della donna da due foto del libro:
occidente/islam!
Fa osservare che ci sono
varie Chinatown ai margini di Londra, New York, Toronto, che nel Nord America
esistono le comunità Amish e nessuno si scandalizza per questo, anzi
c’è la curiosità di andare a visitarle.
Intelligente e brillante
Giglio, che in questo suo libro (il più recente per ora, ma non certo l’ultimo)
affronta altri argomenti che sono stati al centro di suoi saggi precedenti:
l’Alitalia in particolare con cui ha viaggiato troppo spesso sentendosi vessato
rispetto al trattamento ricevuto da altre compagnie aeree.
Una conferma viene da una
lettera del lettore Carlo Chievolti, proprio ne La Verità di lunedì 23 marzo 2020, con questo titolo: “In
piena pandemia danno 500 milioni per salvare Alitalia".
La mia passione per Le lettere dei lettori,
che mio padre criticava ritenendo fossero altre le pagine da leggere di un
giornale, era e rimane esemplarmente educativa.
Giglio si sofferma su la
nostra Costituzione (che
fu scritta subito dopo il fascismo, a dottrina comunista imperante, prima che
questa fosse capita come più perniciosa del fascismo stesso).
Si sofferma
sull’irrilevanza internazionale dell'Italia, sul fatto che siamo il Paese
europeo con il maggior numero di militari in missione e che lo sono
per scopi pacifici e quindi non capisce perché continuiamo a
comprare cacciabombardieri in luogo di apparecchi medicali.
Ci racconta da testimone
oculare cosa fu veramente l'Apartheid in Sud Africa (quando Mandela era in
carcere), e così via.
Questo saggio di Giglio,
focalizzato più che mai sui nostri mali, finisce con alcune battute.
"l'Italia
detiene due primati: 1) il massimo della tassazione che provoca il massimo
dell'evasione, 2) il massimo della tutela del lavoratore cui si contrappone il
massimo della disoccupazione.
Ma a furia di segnalare spunti
o parafrasare ciò che non si può dire meglio di come lo fa l’Autore, non vorrei
riscrivere tutto il suo libro perciò mi fermo e auguro Buona Lettura a chi
voglia e occhio alle foto.
Ce ne sono di spassose,
come nelle due pagine dove mette a fronte quella di Mike Pompeo e quella di
Gigino Di Maio, riportandone le qualifiche.
Per Pompeo: Laurea in
ingegneria, laurea in legge ad Harvard, imprenditore nel settore aerospaziale,
giornalista e redattore, ex direttore della Cia.
Per Di Maio: diplomato ad
Avellino, bibitaro al S. Paolo.
Però anche Pompeo è di
origini italiane (la sua nonna paterna Fay Brandolino era figlia di due
italiani che emigrarono in Usa da Caramanico Terme in Abruzzo).
Gigino è più giovane
quindi mai disperare. Abbiamo troppo bisogno di speranza, di giovani che
sappiano crescere e farsi statisti.
Il lockdown per Giglio
Reduzzi non è passato invano ed ecco qui sopra la foto della raccolta dei suoi Saggi, racchiusi in eleganti copertine.
Otto volumi per 74 saggi dal 1996 quando l’imprenditore con la passione “del
giornalismo” è andato in pensione. Sono divisi in tabelle e per chiarezza
segnalati secondo tipologia con diversi colori: 40 in giallo per la politica,
19 in azzurro per la religione, 15 in verde su argomenti vari.
Li ha anche ingentiliti
sovrapponendo nella foto un mazzo di fiori, ma è solo un ammiccamento birichino
al lettore perché Giglio sa graffiare molto bene.
Giglio ora dovrebbe avere
sugli 85 anni ed ha dato sfogo alle sue passioni di scrittura, politica e
religione soprattutto, ma per la sua inarrivabile chiarezza, per l’umorismo,
per la serietà del suo sguardo panoramico facendone davvero un gran dono per i
lettori.
In questo
piccolo-importante libro di 28 pagine raccoglie due recensioni.
Una è la mia che ho
scritto sul suo “Il meglio di…”, e lo ringrazio per l’amicizia che mi dimostra,
ma l’altra recensione è più importante perché dà atto ad “un’operazione
verità”. E in tempi di fake news dilaganti diventa quanto mai necessaria.
L’operazione verità è su
Silvio Berlusconi e il titolo della recensione comparsa su il Giornale.it, il 3 agosto del 2010, a cura di Felice Manti porta
questo titolo:
“Un imprenditore italiano ha scritto un libro in inglese per difendere
Berlusconi: <I giornali esteri non fanno altro che riprendere gli articoli
di ‘Repubblica’>”
Precisa Manti poco più
avanti: “il pamphlet per volontà dell’autore è destinato esclusivamente ai
non–italians per dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità sul
Cavaliere, ‘il premier italiano più
diffamato di sempre’ ”.
“I corrispondenti da Roma
dei principali giornali statunitensi come il reporter Jeff Israely e Greg Burke
si limitano a riportare quello che leggono sul Corriere della Sera e Repubblica.
Giornali notoriamente distanti anni luce dal centrodestra”.
Le sue sono parole
sacrosante in quanto il Giornale fu
fondato da Indro Montanelli, fuoriuscito dal Corrierone, proprio per
un’operazione verità e controcorrente.
Giglio era rimasto quasi
scandalizzato quando nel consueto viaggio estivo che era solito compiere in
Canada di cui ammirava tante e tante cose per cui qui in Italia sembravamo e
forse siamo ancora indietro di anni luce, si sentì domandare da amici e
conoscenti: “E’ vero che Berlusconi è un womanizer (donnaiolo, ndr), che è
mafioso, che controlla la stampa?”
Allora Giglio contattò
una casa editrice cristiana, la St. Paul press e in poche settimane mise giù la
difesa del Cavaliere contro le calunnie. Non conosceva nemmeno Berlusconi però
riteneva di doverlo fare per un principio fondamentale che viene riportato
nella recensione di Mansi: “Mettetevi nei panni del comunisti: dopo 50 anni
d’attesa dalla scelta degli italiani nel 1948, sono finalmente pronti a
conquistare il potere e improvvisamente arriva questo alieno (Berlusconi) e
glielo porta via. E’ naturale che si comportino come un cane a cui un altro
cane ha sfilato l’osso, e aggiungete l’odio di classe con il quale sono
indottrinati da scaricare contro la ‘personificazione del capitalismo’ ”.
Quella recensione e quelle parole sono di 10 anni or sono e sembra non sia cambiato
niente quando si vede ciò che i magistrati stanno facendo contro Attilio
Fontana, presidente della Regione Lombardia.
Non solo, sempre dal
saggio riporto questa icastica frase a proposito della magistratura: “Don’t
give a damn attitude”, che sono le parole pronunciate da Clark Gable/Rhett
Butler in Via col vento: “francamente
me ne infischio”. Rispecchiano il
pensiero dei
nostri magistrati politicizzati che non pagano mai se sbagliano (“vedi
l’esemplare caso Andreotti”, citato da Giglio), soprattutto perché
non essendo eletti come in Usa non vengono mai sottoposti al giudizio del
popolo per le loro azioni.
Da quanto tempo il
centrodestra parla di separazione delle carriere e di riforma complessiva della
giustizia? Vi sembra che ciò sia nei programmi di questa sinistra che ha
prolungato lo stato d’emergenza fino al 15 di ottobre sperando in chissà quale
salvataggio del destino? La sinistra si avvale della magistratura politicizzata
per far inquisire gli avversari e salvarsi le poltroncine. Ma verrà giorno,
verrà…
Due precisazioni dato che
dalla recensione di Mansi sono passati dieci anni: il Corriere è oggi diretto
dall’equilibrato ed intelligente Luciano Fontana che politicamente è di
sinistra ma sa distinguere benissimo ciò che è corretto dire e soprattutto
scrivere; quanto a Berlusconi come uomo gli si possono attribuire questi versi
di Jorge Manrique: “Io m’en vo triste amador, d’amores desemparado, d’amores
que no d’amor, destichado, destichado…” Impareggiabili sulla povertà dell’uomo
che non sa restare fedele ad una sola donna e che non sa conoscere il vero
amore.
GIULIO VIGNOLI
-Un crimine comunista-
L’immagine di questo
Budda dormiente ricorda la serenità perduta del Laos, un vaso di coccio tra
quelli di ferro: la Birmania, che lo occupò più volte, il Siam (odierna
Thailandia), il cui dominio ha lasciato un pessimo ricordo e l’Impero Kmer, più
o meno l'attuale Cambogia.
Questa drammatica
descrizione contrasta con la pace "eterna" del Budda.
“Ho visto il grande
tronco di un albero dove venivano sbattute le teste dei bambini per poi
gettarne i corpicini in una fossa ai suoi piedi. E le bacheche piene dei
vestitini di questi piccoli martiri.
“Ho visto, nei
pressi della capitale, Vientiane, un campo di sterminio dove svetta altissima
una pagoda di vetro piena di teschi…
“Ho visto con
i miei occhi a Phnom Penh la scuola dove avvenivano le torture con ancora il
sangue dei torturati seccato in terra nelle varie celle. “Orrori, orrori
comunisti!”
Questo libro di Giulio
Vignoli, edito nel giugno 2020 alle Edizioni Settimo Sigillo, segue altre sue
opere che sono pietre miliari per la conoscenza della realtà se non offuscata
da propagande o fini politici: L'olocausto
sconosciuto (Lo sterminio degli Italiani di Crimea), Gli Italiani di Crimea (Nuovi documenti e testimonianze sulla
deportazione e lo sterminio), L’irredentismo
italiano di Nizza e del Nizzardo, Repubblica
Italiana dai Brogli al colpo di Stato del 1946 ai giorni nostri.
Il professor Giulio
Vignoli, già professore di Diritto Internazionale nell’Università di Genova,
giurista e storico, è un benefattore d'italianità, come ho scritto di lui che ha viaggiato in tutta
Europa alla ricerca delle minoranze italiane dimenticate. Ha viaggiato anche in
Asia dandoci il resoconto dei criminali eventi accaduti in Laos ed ignoti in
Italia. E’ stato questo Saggio la sua
più recente fatica e poiché Laos, Tailandia e Cambogia, oggi si visitano per
turismo (ma i turisti sono ignari della drammatica storia recente che segnò
quei popoli) sembra esemplare la frase dei suoi compagni del viaggio
organizzato cui partecipò e da cui ha tratto queste pagine. Erano stati solo in
due a staccarsi dal gruppo che ammirava la Cambogia e al ritorno quando
raccontò alla compagnia, la risposta fu: “Meno male che non siamo venuti. Ci
saremmo rovinati il viaggio".
“Questa è la sensibilità
del vile Mondo occidentale”, commenta il professore e poco prima in queste
pagine per ricordarci cosa è stata la guerra del Vietnam e il genocidio
cambogiano, scrive: “Gli Stati Uniti
persero perché aveva ceduto il fronte interno, minati dalla sinistra
internazionale e interna e dai suoi intellettuali e attori cinematografici
progressisti, cioè comunisteggianti e dalle proteste degli studenti che non
volevano più andare a morire in un lontano Paese.
“L’America perse, a mio
giudizio, - continua il professore -
abbandonando i suoi amici laotiani, vietnamiti e cambogiani alle
vendette, alle stragi, alle prigioni dei comunisti. In Vietnam, il gruppetto
dei neutralisti che era appoggiato dalle Sinistre, fu subito scacciato – utili idioti! – dall’instaurando nuovo
regime comunista”.
Centinaia di migliaia di
vietnamiti fuggirono dal loro paese all’arrivo dei comunisti ed è la stessa
cosa che accadde tra Corea del Nord e del Sud. Nessuno che tornasse indietro,
che andasse al Nord e non a caso la stessa guida che lo accompagna nella sua
peregrinazione afferma: “Non si sa in
Europa che il Laos è un’altra Corea del Nord?” E il proprietario
dell’albergo di Luang Prabang, dove il professore ha soggiornato, gli ha
confermato che è tuttora pericoloso parlare della Famiglia Reale: “I Sovrani e Il Principe ereditario furono
uccisi come i Romanoff, per prudenza non si può parlarne”.
(Sopra Savang
Vatthanà, Re del Laos e Vong Savang, Principe ereditario)
(Palazzo Reale di Luang Prabang)
I vietnamiti che
fuggirono, stretti fra Cina, Laos e Cambogia, non avevano altra via di fuga che
il mare e si avventurarono in questo e furono chiamati “il popolo delle barche”
finché gli Usa non intervennero per salvarli (in parte perché molti morirono)
da sicura morte di fame, di stenti, di sete e aprendo loro i confini degli
Stati Uniti.
Per quanto riguarda i
morti del Laos questo era un pacifico Regno soprannominato in modo poetico come
“Regno del Milione di elefanti e del
Parasole Bianco (usato nelle cerimonie reali)”. Il suo crimine è stato di
trovarsi sul “Sentiero di Ho Chi-Min” per cui transitavano gli aiuti cinesi ai
Viet-Cong.
Secondo la guida del
Professore morirono per le bombe o per
mine inesplose 500mila laotiani su una popolazione di 3 milioni. Il numero
dei bombardamenti Laos è entrato nella leggenda e per voce di popolo ha
superato il numero dei bombardamenti effettuati durante la Seconda Guerra
Mondiale.
Almeno 100mila persone lasciarono il Laos, rifugiandosi in
Thailandia.
E per ricordare quel
titolo famoso “Uomini e no”, è nel dramma che si scopre la diversità dei
comportamenti umani: in Cambogia con il ritiro della truppe americane, il
Presidente della repubblica filoamericana Lon Nol fuggì dal tetto
dell’ambasciata Usa con l’ultimo elicottero americano. Rifiutarono di fuggire Long Boret, primo Ministro e Sirik Matak, capo
del partito repubblicano nonostante i loro nomi figurassero nella lista dei
“Sette Traditori” condannati a morte (quando fossero stati presi) dai Khmer
rossi. Preferirono la morte al disonore.
I comunisti di Cambogia, comandati da Pol Pot e i cui dirigenti
si erano abbeverati di Marx all’Università della Sorbona di Parigi,
come ci ricorda il Vignoli, si diedero
ad un genocidio che provocò la morte di un terzo della popolazione.
E vengo ora al comportamento
del Re del Laos e della sua
famiglia.
Rimasero per due motivi.
Per non abbandonare lo Stato e perché il capo dei comunisti laotiani
era un loro parente, detto il “Principe Rosso”, che aveva sempre affermato in
caso di vittoria Monarchia e Re sarebbero stati rispettati. Il re si era
fidato.
Ma le promesse di
moderazione non furono mantenute, “come è nello stile
comunista”, precisa Vignoli.
Il 2 dicembre 1975 s’instaurò
il governo marxista-leninista.
Il Re, Savang Vatthanà,
ormai “ex”, lasciò il Palazzo e si trasferì a Luang Prabang dove solo due anni
dopo fu accusato di collaborare con la resistenza anticomunista e quindi
deportato con gran parte della Famiglia Reale nei Campi di rieducazione, in realtà Campi della
morte.
I comunisti ne avevano
apprestati diversi e nel n. 1 destinato ai militari del Regno venne deportato
il Re. Il Re, il più anziano del campo, aveva allora 70 anni, fu condannato ai
lavori forzati: in pieno sole per 11 ore e mezzo o per 14. Morì in una data che
è stata fissata nel 1980 grazie alla testimonianza del colonnello Khamphan Thammakhanti delle
Forze Armate Reali, che era giunto al campo n. 1 e dove nel 1989 fu liberato,
raggiungendo ormai sessantenne Portland in Usa.
Ha raccontato questo raro
testimone che la vita nel campo era durissima e a chi portava gli occhiali
questi venivano confiscati in modo che non potessero leggere alcun libro, né si
poteva praticare alcun sport né fare alcuna attività culturale.
(Ancora
un’immagine di rara bellezza orientale)
Il Re appassionato da
sempre di coltivazione e botanica venne messo ad occuparsi dell’orto e della
piccola piantagione di papaia del Campo, un giorno ebbe un diverbio con una
guardia cui disse: “Sai che a Luang Prabang ero abituato a lavorare la terra?”
“Non lamentarti e lavora” fu la risposta piena di scherno e nel
marzo 1980 l’ultimo Re del Laos morì nel sonno all’età di 72 anni e venne tumulato accanto al figlio
primogenito morto prima di lui.
Conclusione del testimone da Portland: “40 prigionieri entrarono nel
campo n. 1 nell’ottobre-novembre del 1977, poco meno di tre anni dopo ne erano
morti 24 per malattia, inedia e malnutrizione.
“Il Governo – concluse il
testimone scelse di non intervenire e
far morire i deportati”.
Il principe ereditario e la principessa avevano
avuto sette figli che non furono arrestati forse perché ancora bambini.
Cinque vivono in Laos, due abitano ora a Vientiane, e tre a Luang Prabang. Nel
campo morirono anche tre fratelli del
Re.
I giovani nulla sanno, la Monarchia
Laotiana vecchia di sette secoli fu rimpiazzata da una Repubblica detta
democratica e popolare, retta da un regime comunista militare che dura da 45 anni,
al soldo del Vietnam comunista.
Però Soulivong Savang, primogenito del principe
ereditario, il 3 agosto 1981, all’età di 18 anni, riuscì a fuggire raggiungendo
i parenti superstiti in Francia. Lì, assieme agli esuli ha
costituito organizzazioni per l’aiuto ai laotiani. Si è laureato in legge,
sposato con una principessa laotiana in esilio, diventando ufficialmente il
pretendente al torno del Laos, in attesa e con la speranza che i comunisti
vengano cacciati.
Questo libro rappresenta al meglio il dovere
della memoria e su un argomento che infiammò le coscienze: la guerra del
Vietnam.
Il Vietnam fino alla
Seconda Guerra Mondiale faceva parte dell’impero coloniale francese e con
la decolonizzazione si affermò un movimento indipendentista che tra il 1945/54 diede luogo
alla Guerra d’Indocina, in cui si fronteggiarono da un lato
l’esercito francese e dall’altro il
movimento Vietminh
legato alle potenze comuniste cinese e sovietica e guidato da Ho Chi Minh.
La Francia era appoggiata dagli Usa che con la dottrina Truman si erano
posti l’obiettivo di contenere
l’avanzata comunista nel globo, ma fu sconfitta a Dien Bien Phu nel 1954.
Nel 1947 ancora sotto l’influenza francese il Laos
diventò una monarchia costituzionale.
Indietro nella Storia.
Nel 1778/1781 i tre
regni Laos, Birmania, Cambogia vennero
soggiogati dal Siam che ne fece stati vassalli
Nel 1826 la ribellione di
Vientiane si concluse con l’esecuzione del sovrano, la distruzione della città,
la deportazione di diverse centinaia di migliaia di laotiani e l’annessione al
Siam del regno di Vientiane
Nel 1893 i francesi conquistarono Vietnam e Cambogia
vincendo la Guerra Franco-siamese ma non li occuparono capillarmente
accontentandosi di farne uno stato cuscinetto per proteggersi dalle colonie
britanniche.
La seconda guerra mondiale indebolì il governo della
Indocina francese,(la Francia infatti era stata invasa dalla Germania) e ne
profittò l’Impero del Giappone che a fine 1940
mise le proprie truppe in gran parte dell’Indocina francese
Il governo nazionalista
di Bangkok (capitale della Thailandia) aveva provocato alla fine del 1940 la
Guerra Franco-thailandese e con l’aiuto dei giapponesi aveva ricuperato parte dei
territori laotiani ceduti ai francesi ad inizio secolo.
S’indignò la corte di Luang Prabang cui i francesi avevano garantito la
salvaguardia delle terre laotiane nell’ambito del protettorato: A Luang Prabang
(come compensazione) vennero annesse Vientiane, Xiangkhoang e Luang Namtha.
Il viceré Phetsarath diede una eccellente organizzazione
all’amministrazione e alle istituzioni laotiane.
Nel 1944 le truppe della Francia Libera del generale
De Gaulle vennero paracadutate nel Laos (la guerra era stata
sfavorevole alle forze dell’Asse) ma i giapponesi li costrinsero a ritirarsi
nella giungla. Le truppe giapponesi costrinsero l’8 aprile 1945 il re
Sisavang Vong a proclamare l’indipendenza sotto la protezione di Tokio. Ma il
tracollo giapponese portò a ritirare le truppe dal Laos e nel 1945 di propria iniziativa il primo
ministro Phetsrath (tale era stato nominato dai giapponesi) confermò di propria
iniziativa l’indipendenza instaurando in Laos un’effimera repubblica detta
Pathet Laos.
Il fratello di Phetsrath
e il fratellastro dopo un lungo soggiorno in Vietnam si erano avvicinati alle
posizioni dei comunisti Viet Minh di Ho Chi Minh.
Però i francesi
riorganizzatisi nelle aree rurali ripresero nel 1946 il controllo del paese che
divenne parte della neonata Unione Francese. Il Regno del Laos fu proclamato
l’11 maggio 1947 quando fu rimesso sul trono Sisavang Vong e restò Re fino al 1959. Fu quindi uno dei
sovrani più longevi avendo regnato 55 anni.
Pur se molto amato dal suo popolo fu criticato nel secondo dopoguerra
dagli indipendentisti laotiani per le sue simpatie filo-francesi.
Nel 1954 quando il regno
ottenne l’indipendenza scoppiò una guerra civile durata 20 anni fino al 1974.
Ma nel 1973 con gli
accordi di Parigi che stabilirono la cessazione delle ostilità in Vietnam
si giunse ad un accordo tra i non-comunisti
e il fronte delle sinistre guidate dal Pathet Lao per dar vita ad una
coalizione governativa. Nel 1974 entrava in carica un governo di unità
nazionale e Souphanouvong, leader del Pathet Lao, assumeva la presidenza del
Consiglio nazionale e le forze militari straniere lasciavano il Paese.
NeL 1975 la destra fu
estromessa dal Governo e il Pathet Lao estese il controllo su gran
parte del paese inclusa la capitale Vientiane.
Nel 1975 Savang Vatthanà
abdicò e fu proclamata la Repubblica democratica popolare.
I primi anni di questo
regime furono caratterizzati da un esodo massiccio verso la Thailandia e con
formazioni politico-militari sostenute dagli Usa ma nel 1989 fallì il tentativo
insurrezionale del Fronte unito di liberazione mazionale.
Nel 1990 con la
dissoluzione dell’Urss e senza gli aiuti sovietici divennero più intense le
relazioni con i paesi occidentali. Nel 1995 ci fu il ripristino degli aiuti
economici da parte di Washington.
Nel 1995 Laos,
Thailandia, Vetnam e Cambogia hanno concluso un accordo per lo sviluppo
economico del bacino del Mekong che attraversa il Laos e nel 2006 ha assunto
l’incarico di capo di stato C. Sayasone del Partito rivoluzionario del popolo
laotiano.
Però sembrano scomparsi dalla memoria quegli anni tra il
1977 dei prigionieri internati nel Campo 1
al 1980 della morte dell’ultimo Re del Laos, Savang Vatthanà
ma continuano i commerci, i viaggi ecc. La memoria non deve aver spazio.Come ha scritto il prof. Giulio Vignoli il
Laos è tuttora una repubblica comunista totalitaria o meglio una tirannide
militare di comunisti duri e puri alla vecchia maniera dove sventolano bandiere
rosse con la falce e il martello gialli, nella quale certe notizie devono
essere assolutamente ignorate e nascoste.
I vecchi sanno solo che
la Famiglia Reale fu portata al Nord e poi sparì.
Maria Rosaria Dominis
LA RICERCA
(L’Autrice)