2019 - GEMME
RITROVATE
INDICE
1) Jimmie Moglia - maturità 1957 -
al D’Oria è tornato
2) a Genova per incontrare i compagni di liceo
3) Foto della mia III C al D’Oria - 1961
4) Paolo Filippi, Le sorelle Bruno 2003
5) Paolo Antognetti, L’Isola Sacra 2017
6) Puni Minuto, La festa di compleanno 2009
7) Silvana Canevelli, La villa arancione 2014
8) Jonne Bertola Swinging Giulia 2019
9) Velia Galati Tessiore, Bambini Killer
10)
Vito Molinari: i comici da Petrolini a
Villaggio 2019
Premessa:
Inserisco
il testo di un ex allievo del D’Oria (maturità 1\957) e poi la foto della della
mia III liceo al D’Oria (maturità 1961) tre foto di compagni della III Liceo al
D'Oria.
In prima fila
dal basso e terza da sinistra Marite Cacia, cognata di Paolo Filippi di cui ho
messo la recensione al suo Le sorelle
Bruno.
In prima fila
dall’alto Paolo Antognetti di cui ho messo la recensione a L'Isola Sacra
Nella fila centrale Puni Notte Minuto di cui
ho messo la recensione a La festa di compleanno.
Jimmie Moglia
Storia d’Italia
Jmmie Moglia, ingegnere, vive a Portland in Oregon con la sua gatta
Chavette. E’ stato in Italia nel 2011 per presentare il Nostro Dante Quotidiano
(NQD), dizionario di citazioni dantesche, che attestano il suo amore per il suo
Paese d’origine. Prima di NQD aveva pubblicato un dizionario con le citazioni
da Shakespeare. Nell’ultima foto con Gaber è di quando suonava alla Bussola (e
suonò anche al Covo di Nord Est per mantenersi agli studi d'ingegneria. Jimmie
è il suo nome d’arte poi adottato per la vita quotidiana.
Qui sopra Jimmie nel suo studio a Protland davanti alla collezione di
libri rari e antichi di cui è orgoglioso e come sta parlando dai suoi video
storici citati a fondo pagina.
Quindi il mio articolo sulla sua rimpatriata a Genova con compagni della
III B, maturità 1957 al Liceo D’Oria.
E poi dato che nei giornali lo spazio è prezioso e come diceva il poeta e
giornalista Giovanni Raboni "solo dai giornali s'impara la brevità"
una versione un po' più estesa dell’articolo che è uscito con le 30 righe
soltanto come mi era stato richiesto (io però cerco sempre di sforare per il
fatto dell’hic et nunc).
Jimmie Moglia, che nel
2011 ha presentato alla Berio con una sala Clerici affollatissima il Nostro Dante Quotidiano (sigla NQD), e’ venuto a Genova per una riunione con i
suoi compagni della III B al Liceo D’Oria:
maturita’ nel 1957. Fondatori dell’iniziativa: Ambrogio Caresano e Franz
Bolte.
Per
notizie su Jimmie, che ha studiato ingegneria a Genova, trasferendosi dopo la
laurea a Portland , basta accedere al Sito:
www.yourdailyshakespeare.com.
Su questo come pure sul sito www.thesaker.is si trovano molti dei 550
articoli, tutti di 3000/4000 parole su argomenti politici della storia attuale,
che su Facebook gli hanno guadagnato grande seguito di followers.
Con
parole sue, la genesi della rimpatriata a Genova che - come idea - nasce lo scorso 25 dicembre. “Per voi e' gia' il mattino di Natale, ma qui, a
Portland, e' la vigilia. E per me, ricordi inaspettati si presentano alla
mente.
Qui a Portland (Oregon), dove abito da decenni,
conduco vita che non esito a definire frugale e certosina. Cavalco il mio
cavallo meccanico (leggi bicicletta) e d'estate navigo col mio yacht molto
francescano (leggi kayak a propulsione umana)! La notte di Natale ascolto canti
natalizi e la mia gatta Chavette mi guarda. I ricordi volano: non mi sento uno
Scrooge di Dickens, non faccio un bilancio della mia vita nel senso che so di
non essere stato “né troppo buono né troppo cattivo” ma tant’è… Da quella
nostalgia-maliconia del Natale scorso è nata l’idea di una rimpatriata a Genova
con i compagni della III B, appena conclusa: eravamo in sei.
“Ricordi del Liceo e dei nostri professori: la
Sacheli, docente di matematica, con il suo ‘cannocchiale alla rovescia’, lo strumento con cui pigri studenti avrebbero
visto la maturità) . Il bonario scetticismo del Prof. Galimberti, la
genuina bonta' del Prof. Puppo.
“Ricordo -ed è per me doloroso ed indelebile- il
suicidio di un compagno di nome Bianchero (figlio dei titolari dell'omonima e
famosa rosticceria in Via XX Settembre). La professoressa Gasti: la buonanima!
che si sarebbe meritata uno zero in psicologia, si accaniva contro di lui,
senza alcuna considerazione per come si sente un teenager, umiliato e fatto
sentire inutile.
“Ricordo ancora un'iniziativa
'rivoluzionaria' della nostra III B: il lancio di un giornale scolastico
intitolato 'SOS', nel quale si faceva riferimento ai professori, con garbata
ironia. Alcuni di loro si sono infuriati. Ranieri, docente di educazione
fisica, comunico' arrabbiato che non avrebbe mai piu' voluto vedere il suo nome
in alcuna pagina del 'SOS". Nel numero successivo, ad ogni pagina appariva
in calce la scritta: ‘Come vedete, neanche in questa pagina compare il Prof.
Ranieri’.”
JM mi contattò come giornalista ed ex doriana per
notizie su Emanuele Gennaro, mio insegnante di filosofia i cui testi sono alla
sezione storica della Berio: l’uso e la disciplina della memoria è il “ponte”
tra le sue ricerche e la pittura filosofica di Gennaro (che ebbe gran fortuna
in Russia). L’idea madre e’ che
concetti astratti hanno alla loro radice un parallelo grafico. JM ha sviluppato una “APP” che “celebra il
matrimonio tra la stampa e l’Internet,” agevolando in un modo abbastanza
divertente, la memorizzazione delle citazioni.
JM ha scritto, tra l’altro, due dizionari da lui
definiti “utili, inusuali e unici”, su Shakespeare e sulla Divina Commedia di
Dante. Quello su Shakespeare si intitola
“Your Daily Shakespeare – an Arsenal of Verbal Weapons to Drive your Friends
into Action and your Enemies into Despair.” Quello su Dante, “Il
Nostro Dante Quotidiano – 3500 modi di cavarsela con Dante.” Il dizionario
Dantesco, pubblicato dalla Regione Toscana, è
accessibile gratuitamente su Internet.
JM nella sua ‘terza vita’, - come la definisce -
produce video storici per un canale televisivo dell’Oregon, e per un’università
di Portland. E si scopre un intatto
amore per l’Italia perché questi video (è arrivato al III) riguardano la nostra
storia, me cito uno perché vi è il riferimento agli altri due: “Episode #60 – History of
Italy, part 3 -https://youtu.be/KYQtoRhPwJ0 - in cui arriva a
Romolo Augustolo”.
Maria Luisa
Bressani
Episode #58 – History of Italy, part 1 – https://youtu.be/9_7b1l3mI1A
First Episode of the History of Italy. How the fortunes and
misfortunes of the Chinese empire influenced the last stages of the Roman
Empire.
Paolo
Antognetti
L’isola Sacra
(la foto è tratta da quella della nostra III C,
prima della maturità nel 1961. D’altronde Paolo oggi sembra quello di un
tempo).
Premessa.
Paolo Antognetti è un ingegnere che vive in Svizzera e, di
ritorno dall’America e dalla Silicon Valley dove ha speso i suoi primo anni
lavorativi, ha insegnato a Genova alla Facoltà d’Ingegneria.
In un esame ha interrogato mio figlio Cesare, allora studente
ad Ingegneria.
Ricordo ancora il momento di suspense circospetta che lessi
negli occhi di Antognetti quando gli dissi ad una rimpatriata della nostra III
C del D’Oria: “Sai che mio figlio ha dato un esame con te?” E lui: “Quanto gli
ho dato?” Ed io: “28!” Paolo subito si
rasserenò alla mia risposta.
Da qualche tempo
Antognetti si è scoperto una passione di scrittore. Sostiene che è un germe (corroborante!)
che il nostro Prof. di Lettere al
D’Oria, Pietro Raimondi, ha inoculato in noi allievi (più d’uno infatti gli
scrittori della nostra antica classe). Ad onore del nostro Professore sono
tutte sue le prefazioni agli autori di lingua spagnola della splendida
Collana dei Nobel della Utet.
Antognetti ha esordito con L’arte
di vivere a lungo (Edizioni Mediterranee, 1996), presentato alla Libreria
Di Stefano a Genova in piazza Dante e dove eravamo in tanti compagni a fargli
festa, in primis la nostra Chicca, che
non è più, di cui allego la foto da sposa, e che molto si attivò per
pubblicizzare il testo.
Con un po’ di nostalgia
dei nostri anni di liceali chiamerò l’autore per nome, Paolo. Non tutti però ricordano come me e Giorgio
Schiano di Pepe, un altro compagno e professore universitario, mi ha confidato
che sono stati “i più brutti della sua
vita” al punto da non voler nemmeno rivederci nelle nostre cicliche rimpatriate.
Paolo ha scritto anche Le
radici del futuro e considera queste sue due opere nel sapore
dell’autobiografia.
I libri si trovano on line sul suo Sito:
Da professore universitario ha pubblicato testi di tecnologia
in inglese. Ringraziandolo per avermi inviato L’Isola Sacra e Matrimonio nel deserto (di cui allego la suggestiva
copertina), dopo accurata lettura dell’Isola,
scrivo cosa ne penso premettendo che è stata una lettura “insolita ed affascinate”. Agli esordi da giornalista
(1983) sognavo di leggere libri e recensirli, mentre poi il mestiere mi portò a scoprire tanti aspetti diversi della
nostra cultura e tanti progetti e necessità della Gente. Negli ultimi dieci
anni al Giornale (pagine di Genova)
ebbi però la gioia di poter scrivere tante, tante recensioni.
Il “Per Aspera ad Astra” è il simbolo premesso al Sito
______________________________
L’Isola Sacra
In copertina la rosa de venti che sembra rassicurarci sulla
libertà di rotta.
Nel risvolto di copertina
Paolo risponde alla domanda se questo sia un romanzo autobiografico:
“Per alcuni aspetti: ho amato andare per mare, in particolare con la barca a
vela, a visitare le isole del Mediterraneo”.
Tra i suoi autori preferiti indica quelli di libri d’avventura
che lo hanno accompagnato lungo tutta la vita e ricorda: Jules Verne, Jack
London, Morris West, Emilio Salgari, Michael Morpurgo, Wilbur Smith, Ruyard
Kipling.
In questo libro è molto importante la dedica al nipote
Francesco, l’unico – per ora - che ha
avuto dai suoi quattro figli: “Perché il libro susciti in lui un rinnovato
interesse, una vera passione, per la lettura”.
Primo punto di forza del libro è proprio la trama che segue la
storia di Gunnar Kloster, professore
universitario di Etnografia del Pacifico, figlio di Thor, capitano della marina
mercantile norvegese e di Kawena Kienga,
donna delle Isole Marchesi, morta mentre lo partoriva nell’ospedale di Honolulu,
una settimana prima di Pearl Harbour. Gunnar non ottiene la cattedra
universitaria in questa disciplina perché in una monografia, scritta proprio
per accedervi, ha dato per scontata
l’esistenza di un’isola polinesiana, non ancora segnata in nessuna carta
geografica. Gunnar sostiene che è certo dell’esistenza dell’isola e che tutto
ciò che sa glielo ha insegnato suo nonno Kaloni Kienga.
Il libro si apre proprio con questo vecchio sulla bianca spiaggia di Hiva Oa che guarda
verso il sorgere della luna. Aspetta che venga l’uomo che lo accompagnerà
nell’ultimo viaggio al “rifugio” di tutti i navigatori, sotto la costellazione
di Sirio, sotto il sentiero del dio Kanaloa.
L’uomo sarà proprio il nipote che deve provare la veridicità
delle sue affermazioni come gli suggerisce il preside della facoltà di Studi
Oceanici presso l’Università delle Hawai
(2500 miglia a nord-est dell’isola, di cui provare l’esistenza).
Se la trama si presenta
da subito avvincente, già in questa prima pagina e anche dopo, compaiono nomi
per noi tuttora un po’ esotici: lo zenzero (oggi abbastanza diffuso nella
nostra cucina), i frangipani (pianta originaria dell’America tropicale), il
frutto dell’albero del pane, il fei
(grossa pianta rossa più dolce delle banane, il taro (che è una specie di
patata). Leggere diventa un viaggio culturale tra nomi per noi come di un altro
mondo, pensando che la tradizione culinaria di un luogo è la sua cultura.
Altro punto di forza sono
le leggende polinesiane come questa del
“viaggio finale della vita" per raggiungere l’Isola Sacra.
Non solo, dato che Gunnar
il viaggio non lo può certo far da solo e deve mettere insieme una spedizione
(quasi novello Colombo), le pagine si popolano di persone tra cui nascono
invidie, sopportazioni, amori. Anche la passione del protagonista con il
giovane medico Sally, caratterizzata da accese discussioni, il che avviene tra
persone intelligenti ed autonome. Qui e là
massime di saggezza come questa riferita all’universo-donna: “Quello che
le donne dicono e quello che fanno sono due cose diverse”.
La spedizione si
concluderà con un naufragio sull’isola e di conseguenza la necessità di
adattarsi ad una vita primordiale ma aiutati dall’esperienza della cultura
occidentale acquisita.
C’è però un grave
impedimento: non aver medicine e quindi non potersi curare.
Infine (e chiedo scusa se
anticipo il finale) Gunnar riesce a far salire i compagni sopravvissuti su
un’imbarcazione da loro stessi costruita e a rimandarli nel mondo civilizzato.
Lui resta sull’isola e ne diviene il custode.
Nella seconda
parte del libro sull’isola arriva un ragazzino naufrago che con il
padre Marco, di origine italiana e la madre Aikiko di origine giapponese, stava veleggiando verso il Giappone Il padre
voleva iniziarvi il suo nuovo lavoro. Marco era giunto in America grazie ad una
borsa di studio in Italia e dopo la laurea in Ingegneria elettronica e
successivamente un Master e un Dottorato era stato tra i “fondatori” della
Silicon Valley, regione a sud di S. Francisco, dove sono nate e si sono sviluppate
molte aziende di elettronica digitale.
Erano i tempi delle prime calcolatrici portatili, dei primi telefoni
senza fili e dello sviluppo dei “chip”, il cervello di ogni attrezzatura
elettronica realizzato appunto in silicio. Poi
Marco con due studenti di Master,
piccoli geni del software, aveva iniziato a creare giochi per i computer portatili, fondando la
“Playmobil”. Ma i due, “traditori”, profittando di una sua assenza per un
viaggio a Los Angeles con moglie e figlio, avevano venduto l’azienda a prezzi
stracciati ad un’altra più grande, esautorandolo di fatto dall’esser
proprietario del 33%.
A quel punto Marco decide
di andare in Giappone dove la moglie, potrà lavorare bene nei suoi settori di
competenza (massaggi e alimentazione), e lui potrà dar vita ai suoi progetti di
giochi elettronici, che ormai sono meno
in espansione in California che in Giappone, dove invece per essi si apre un
bel mercato.
La barca a vela di 15
metri, di seconda mano, ma perfettamente attrezzata, viene battezzata Jaimar
dalle iniziali dei tre nomi dei componenti la famiglia: Jojo, Aikiko e Marco.
(E qui però c’è
un'analogia che intriga: Jaimar è anche il nome dell’Editore dell’Isola Sacra.
Perché?).
Jojo, naufrago sull'Isola
insieme allo spelacchiato cane Artù, viene “allevato” da Gunnar che
precedentemente era stato come “bussola e rosa dei venti" per un altro
adolescente Mark. Questi, figlio di
un’amica aveva partecipato con la madre
all’antica spedizione.
Il libro finisce con Jojo
che ritrova i genitori venuti a cercarlo.
In Appendice un estratto
dal giornale “Marquises-Soir”. Racconta di una festa tenuta ad Hiva Oa, detta
“il Giardino delle Isole Marchesi” per festeggiare il nuovo capo, Hunu Kaimuko,
conosciuto un tempo come Gunnar Kloster.
Mi ha affascinato nel libro la “voce di Dio”, la voce che parla dal
luogo sacro dell’Isola dove si era ritirato il nonno di Gunnar a morire: quella voce è
l’esperienza di Dio, come la chiamavano gli antichi guaritori greci.
La voce, nella prima parte del libro, parla attraverso Mark per richiamare i compagni della spedizione,
divenuti naufraghi, a collaborare tra loro e a non farsi “la guerra”. Dice
Mark: “Ognuno di voi vuole che il prezzo venga
pagato dall’altro. Io vi guardo e ho paura perché vedo la morte nei
vostri occhi…”
Il messaggio di salvezza,
che si potrebbe allargare agli uomini tutti, è affidato a due ragazzi e penso:
“Paolo ha conservato occhi buoni e sinceri da ragazzo che parlano per lui
nonostante l’aplomb e la riservatezza che lo hanno sempre caratterizzato".
Concludo: “Paolo ha scritto un libro interessante proprio per la sua cultura,
la sua esperienza di un mondo meno
circoscritto di tanti nostri provincialismi e libri ancorati ad un
passato, anche storico, ma che più non è”.
PAOLO FILIPPI
Le sorelle Bruno
Un romanzo, edito nel 2003 con De Ferrari,
affascinante per la miniera di notizie che vi si ritrovano sulla Genova di fine
Ottocento, su Ginevra e su New York luoghi dove vanno a vivere le tre sorelle
Bruno: Alaide, Lidia, Giulia, nate a Livorno e con nel cuore la casa di
campagna a Borgo Buggiano, detta il Biurlo, non lontano da Fucecchio, dove
nacque Indro Montanelli.
(Il grande giornalista qui è in una foto da
bambino con il padre Sestilio e la madre Maddalena Doddoli)
Paolo Filippi nato a Genova nel 1941, di
formazione umanistica, laureato in Economia e commercio nel 1965 con una tesi
sull’economia genovese dal 1885 al 1905, padre di due figli, ha lavorato per
molti anni in una società petrolifera multinazionale, ricoprendo incarichi
operativi in Italia, Francia, Inghilterra. Si è poi dedicato a ricerche
d’archivio, per lo più rivolte al ricupero di storie familiari appena
intraviste nelle parole ormai lontane dei parenti scomparsi.
Rivolge un ringraziamento particolare a
Giulia Galleani Gropallo senza il cui diario e la grande, accurata memoria,
buona parte della storia di Giulia Bruno sarebbe andata perduta.
Nel recensire tanti e tanti libri ho maturato
una convinzione: gli imprenditori e chi ha lavorato in una grande industria
quando prendono in mano la penna offrono interessanti sorprese. Il loro sguardo
su fatti e luoghi è più aperto, più
ampio. Hanno una maggior coscienza delle vite vissute: della propria e
soprattutto di quella degli altri.
Fin dalle prime pagine risalta la
“tradizione” in un pranzo di Natale del 1885 a Genova, in via Serra in una
famiglia nobile, la tavola apparecchiata con i piatti di Albisola, bianchi e
blu antico (blu inimitabile, il blu attuale è troppo azzurro, un po’ sfacciato,
meno nobile): i fritti di latte brusco (che ho ancora trovato in una
friggitoria in via S. Vincenzo), i ravioli al sugo, il cappon magro profumato
di salsa verde (piatto ora molto in voga) però già allora viene considerato
meno buono rispetto a quello per la
stessa occasione del 1882: “il musciamme infatti non era più quello di soli tre
anni prima”. E ancora: fritto misto di carne e verdura (la mia passione!), la
cima variegata di mortadella, le insalate di tre tipi…
E prima ancora di arrivare a questo punto si
è fatto cenno ad un’altra tradizione: il gioco a carte “bézigue”, gioco
francese del 19° secolo (non sapevo che esistesse), come più avanti ci sarà
l’accenno all’ottima cucina del ristorante “Carlin Pescia” al Carlo Felice, e si ricorderà il Caffè Concordia dove veniva Verdi quando era a
Genova. Particolari che fanno rivivere il passato Ottocento.
Dove risalta al massimo come la Storia si mescoli alle vicende dei
privati cittadini è nel capitolo intitolato “Sabato 19 febbraio 1887”. In San Lorenzo si tiene la Messa di
suffragio “per i poveri giovani italiani, morti lontano, a Dogali”.
Ad Angelo, marito di Alaide e anche lui
protagonista importante del romanzo, viene in mente un altro massacro di 40
anni prima: quando nell’aprile 1849 ben 30mila soldati piemontesi, preceduti da
1600 bersaglieri si preparavano a
sparare sui sudditi genovesi del nuovo re, Vittorio Emanuele II. I
genovesi non sopportavano più i 35 anni di dominio piemontese. Dopo la
sconfitta subita dai piemontesi a Novara e poi a Custoza, i genovesi pensavano
di scrollarsi da questo giogo unendosi ai patrioti di Venezia, Bologna e Parma.
Non a caso la sete di libertà dei genovesi è sempre stata così grande che
vollero come patrona della città Maria, una regina di cui nessuno poteva essere
più grande.
Il 5 aprile il Lamarmora ordina di aprire il
fuoco sulla città indifesa, con i cannoni dei forti riconquistati. Si unisce a
lui il cannoneggiamento della nave da
guerra inglese Vengeance, ancorata in
porto.
I bersaglieri entrano in Genova:
“saccheggiano, rubano, uccidono, stuprano…” Questa la storia del massacro!
Non manca, nelle pagine che riguardano il
pranzo di Natale da cui abbiamo iniziato, uno sguardo all’imprenditoria genovese
con la constatazione di un gran
fermento, un “movimento intorno alle officine Ansaldo”: fondate nel 1853
da Giovanni Ansaldo e nel 1852 dell’era Bombrini guidate da una compagine
imprenditoriale favorita da Cavour. Erano nate per la produzione di locomotive
a vapore e materiale ferroviario. Sono state il motore propulsore dello
sviluppo di Genova ed è logico che attirassero l’attenzione di giovani
desiderosi di affermazione o di legami con la fiorente industria. Tra questi
Giovanni, figlio di Angelo e Alaide,
che è stato compagno di banco del figlio di Bombrini e vorrebbe metter su una fabbrichetta di
forniture meccaniche.
Alaide, delle tre sorelle, è la reale
protagonista di questo Via col vento
nostrano (nel senso di un grande romanzo che affascina).
Angelo Magnasco, il marito, è chirurgo
all’ospedale di Pammatone, il più grande ed importante di Genova, ed è nobile
anche se di una nobiltà “minore” cioè quella che – come sottolinea acutamente
Filippi - deve lavorare per vivere. Si
è innamorato di Alaide vedendola
inginocchiata ed assorta in preghiera nella Chiesa di Sant’Ambrogio.
Considerava sogni quelli del figlio “in quanto ha sempre evitato i contatti
troppo ravvicinati con le attività mercantili (non gli piacciono e lo
spaventano)”, però ora -con cura paterna- vorrebbe assecondarlo. Un carattere
riflessivo quello di Angelo, da cui la moglie Alaide che lo sposa ventenne e
lui ha già trentasei anni, lamenta di non avere “mai una carezza, mai una
risata insieme…” Però – e salto da p.15 a p. 157, quando Angelo capisce che la
moglie è affetta da un male incurabile scrive queste parole che sono come la
sigla del libro stesso: “Come è duro
portare il fardello della conoscenza”. E non le dirà della
malattia senza speranza.
Le storie delle due sorelle minori di
Alaide, Lidia che si sposterà in America con
marito e figli e Giulia, la più giovane (così giovane da esser sempre considerata da Alaide una
figlia più che una sorella e che andrà
come governante a Ginevra), diventano una panoramica su queste città e i loro Stati a fine Ottocento.
Non manca una fedelissima collaboratrice
domestica Berta che, nata a Fucecchio,
accompagnerà Alaide sposina a Genova.
Una pagina mi ha commosso: quando Angelo si
reca alla tomba di Alaide a Staglieno, situata ben oltre la tomba di Mazzini,
ben oltre al boschetto dei Mille, così chiamato per i molti garibaldini che vi
riposano: una tomba con una semplice lapide bianca e una croce (quasi in
contrasto con un cimitero dove le famiglie ostentavano la loro ricchezza e che
Agatha Christie in suo giallo definisce del tutto “kitsch”). E lui pensa che
“lei è lì sola!”
Questo ampio romanzo, di 350 pagine e tante
sfaccettature come un brillante ben tagliato, si può reperire in quanto edito
nel 2003 dall’Editore genovese De Ferrari, quindi non mi dilungo sui tanti
attraenti particolari: da una tovaglia ricamata portata in America da un
capitano di nave salvato dal medico Angelo, alle ferrovie sopraelevate(dette
“eleveted”) di New York, città dalle strade lunghe lunghe e larghe larghe…
Concludo solo con qualche parola del lungo necrologio per Angelo su “Il Cittadino”. La notizia della sua
morte era però stata data ampiamente anche su “Il Caffaro” e sul “Corriere
Mercantile”.
Il necrologio parla dell’ “onestà e
franchezza di carattere di Angelo, della sua scienza e coscienza
nell’adempimento del proprio ministero”. E appena si aggravò, da dottore che
sapeva, chiese subito di far venire il confessore.
Anche in questa annotazione un profumo di
buoni sentimenti, di buone cose antiche, di valori veri.
Puni Minuto
Questo
agile libretto che ebbe una presentazione affollatissima (vuol dire che
in molti stimano e vogliono bene all’autrice) è l’unica opera che ha scritto
una donna imprenditrice.
Scritto con tanto humour rappresenta alcune coppie
di suoi amici inseriti in un bosco come ne fossero gli abituali frequentatori:
la talpa, il leone, il polpo, il camoscio, i piccioni e così via.
E’ uno spaccato della nostra Società nei suoi pregi
e difetti.
Di sé nell’aletta di copertina Puni scrive con
autoironia:
Il Libro si gusta proprio per l’ironia avvolgente
dei vari personaggi e ne trascrivo alcune definizioni.
L’ingegner Talpa cui piace tornare al bosco per
cesellare le sue dilette gallerie locali: "Il cesello è arte di pazienza e
già lento di suo, se in più lo stoppano ogni volta che incontra la radice di un
albero..."
E qui è evidente la critica a chi in Italia si
occupa di opere pubbliche, come per stare in tema una metropolitana, ma anche
per tutte le altre dove arrivano intoppi di ogni tipo da quelli burocratici
alle lunghissime concessioni ecc.
Deliziose le immagini del libro. Alla signora Talpa l’ottima
illustratrice, Simona Carola Carrara, ne ha riservata una assai divertente.
Seguono altre definizioni che sono come istantanee
dei vari personaggi.
Dell’ingegner Leone, cui è riservato l’epiteto di
"vero Jonathan Livingston dell'imprenditoria locale", è messa in
risalto la capacità di battute fulminanti e graffianti: “Un bene per tutti –
commenta -, perché la melassa è più indigesta del peperoncino”. E c’è l'ingegner
Polpo che per tutta la vita ha diretto la produzione di generatori di energia e
Capodanno è la ricorrenza in cui dà il meglio di sé con un'autentica vocazione
per l'arte pirotecnica”. A difenderlo dalle citazioni che per risarcimento danni che gli arrivano puntualmente
entro il 15 gennaio c’è l’avvocato Volpe: "Si dice che nel portapenne
sulla scrivania, insieme alle stilografiche tenga anche un flaconcino di
polvere d’antrace". Tra le figure femminili spicca la vedova Gazza, che è
l’incarnazione della ruba mariti secondo
un gossip scatenatosi tra le gentili signore. Avvistata ad una prima
all’opera insieme all’ingegner Camoscio che con la propria moglie sono
considerati una coppia molto affiatata, dopo allusioni sulla scappatella “operistica” la signora Camoscio
sembra non avervi dato peso e non ha risposto al riguardo. La signora Talpa, la
Leonessa e la signora Polpo da gentildonne sui sono trasformate in giustiziere
condanno a morte la gazza "rubamariti", che è di tutt’altra indole
che una casa/chiesa/ bottega/micio. La
signora Polpo ha rivolto in giù tutti gli otto pollici
Un pregio del libro è proprio l’originalità della
trama: se le tre donne si sono messe in pista per procurarsi il veleno da
mettere in una delle tre torte che la signora Polpo è solita preparare nei suoi
inviti per caso, l’ingegner Talpa scoprì la trama sul telefonino della moglie e
subito convocò Leone e Polpo per salvare la povera Gazza. S’incontrarono alla
stazione Brin della metropolitana dove lì vicino c’è una trattoria e lì
mangiarono e concertarono il da farsi: però il piano aveva bisogno di
aggiustamenti per cui s'incontrarono diverse altre volte.
Succede che all’invito per il delitto uno dei tre
va in giardino a fumare e getta per terra il mozzicone della sigaretta ancora
acceso che fa esplodere una bottiglia abbandonata con la mistura del veleno. Si
scopre pure quando la Gazza raccomanda alla signora Camoscio di ricordare al
marito che aveva due biglietti omaggio per la Turandot e che lui si trovi come
al solito ai piedi dello scalone dove annullano i ticket che non c’era lacuna
relazione adulterina ma solo una frequentazione di amici. In compenso la
signora Camoscio poteva andare a vedere i balletti che tanto le piacevano e in
compagnia di sue amiche.
Però l’esplosione ha allertato le forze dell’Ordine
e soprattutto la Digos. Pensano che i tre commensali dell’ottima trattoria
(immaginaria ma che tra gli amici ha suscitato tanto interesse che in molti ne
hanno chiesto l’indirizzo) siano cellule terroristiche di Al Qaeda e hanno
soprannominato l’operazione Alì Babà.
Finisce che ispettori sempre diversi per non destar sospetti ogni settimana si accodano agli ingegneri Talpa Leone e Polpo sui convogli del metrò diretti a Certosa in Valpolcevera. In trattoria si siedono sempre a un tavolo vicino al loro, mangiano gli stessi piatti e gustano lo stesso vino e continua un’allegra storia di spionaggio che non avrà fine.
Alle indagini si sono offerti di collaborare i ROS
senza aver ancora avuto risposta e alla DIGOS la lista dei volontari per il
pedinamento è così lunga che si sorteggiano i fortunati di turno.
Silvana Canevelli
La
villa arancione
Silvana Canevelli è nata a Genova dove si è
laureata in Lingue e Letterature straniere moderne. Insegnante e pubblicista,
ha al suo attivo traduzioni di volumi di narrativa, romanzi e saggi. Collabora
a giornali e riviste tra cui la rivista Tecnologia
Trasporti di Mare. Questo suo libro del 2014, pubblicato con Europa
Edizioni fa parte della collana ‹‹Edificare Universi›› e poiché Silvana è sta
fino all’anno passato a per tre mandati presidente nazionale dei Lyceum italiani
e il Lyceum è un sodalizio nato al femminile, cito delle sue pubblicazioni ‹‹Diritto di parola, voci significative di
scrittrici liguri››. Un libro dedicato quindi alle donne scrittrici.
Dei suoi testi, le cui storie si svolgono in
Liguria, ricordo per le edizioni Frilli ‹‹Di
settembre a Camogli›› e ‹‹La casa dei
limoni››.
Una volta Silvana mi ha detto: “Sono stata
figlia unica e per questo sono felice di aver avuto cinque figli”.
Il romanzo per me che vivo dal 1964 a Nervi
è tanto più coinvolgente perché vi è ambientato, in una dimora chiamata villa
arancione e descritta come “quella alla curva”. In tempo di guerra era abitata
da un console svizzero che, quando la villa fu requisita dai tedeschi (6 aprile
1944), si tasferì a Palma di Maiorca con la famiglia e con la tata dei due
figli, madame Barbette.
Protagonista del libro è Clotilde, una
professoressa d’inglese che prima della guerra si era innamorata di Franz un
austriaco biondo di 34 anni, venuto per i bagni di mare. Si erano conosciuti
nella spiaggia libera in fondo alla passeggiata di Nervi. Scoppia la guerra,
Franz deve partire e Clotilde se lo ritrova davanti il 6 aprile 1944, vestito
da capitano della Wermacht ed ora in forza nel comando tedesco della villetta
arancione. Lui le ha portato in dono un rotolo di un quadro di un famoso
impressionista, che poi si rivelò di grande valore. Rinasce la storia d’amore e
succede però che nella villa sia rimasta, lasciata dal console a guardia della
dimora, Tunin una ragazzina molto giovane.
Questa, alla villa, viene violentata però decide di tenere il nascituro (che
diventerà una bellissima ragazza Lidia e il quadro di valore un giorno
costituirà la sua "dote", facendo dei lei "figlia della portinaia"
- la nuova mansione di Tunin - un’ereditiera). Quando stanno per arrivare gli
alleati e Franz deve andarsene chiede
aiuto a Clotilde perché salvi Tunin e la piccola. La professoressa è assalita
da gelosia pensando che Lidia possa essere figlia di Franz benché lui le
assicuri che vuol bene a Tunin come ad una sorella.
Dopo la guerra la villa viene riaperta dalla
seconda moglie del console che vi ritorna con i due figli del precedente
matrimonio di lui. Mi fermo qui per l’intreccio che vede anche il ritorno di
Franz da un campo di prigionia inglese, ma poi lui viene attratto da alcune
vecchie foto in cui individua una feroce criminale di guerra, una donna, e
quando sta per portare il tutto alla luce è vittima di un incidente, insomma è
fatto fuori.
La frase cult del libro è – secondo me –
questa di Keats: “La bellezza è verità, la verità è bellezza”, che Clotilde
cita ad una sua allieva adolescente e aggiunge per lei queste parole: “Il mio
rifugio, lo sai solo te e qualcun altro
che ora non c’è più”. Il qualcun altro è Franz, sempre nel suo cuore e da lei
ricordato ogni giorno.
In ciò ci sembra di leggere un dato
autobiografico della professoressa Canevelli, vedova da anni ma da sempre
impegnata nell’educazione dei figli, dei 10 nipoti e degli allievi, anche nella scrittura di saggi e libri.
Il pensiero della morte s’insinua sempre nel
libro pagina dopo pagina, nel ricordo costante di Clotilde (Silvana) per chi le è venuto meno e che le manca così
tanto.
Un pregio del racconto sono le osservazioni dei suoi allievi, con la
freschezza dei loro anni come quando una ragazzina timida si trova a dover
attraversare la piazzetta di Nervi e passare davanti al bar dove ciondolavano
ragazzotti: “e qualcuno una volta aveva fischiato, qualcuno aveva ridacchiato”.
E alla ragazzina sembrava di dover passare sotto le forche caudine anche se
quel bar della piazzetta era Giumin, famoso per i più buoni gelati di Nervi.
Altro grande pregio è la ricostruzione del
tempo di guerra con precisione e con episodi inediti o non troppo divulgati. E’
il caso di quando Theresia spiega al fratello Franz perché ha voluto andar via da Linz dove aveva lavorato come
segretaria al castello di Harrtheim, a
trenta chilometri da Mauthausen.
Al castello, un tempo, c’erano locali
adibiti ad ospizio per ragazzi handicappati, accuditi da brave Suore della
Misericordia. Poi Suore e ragazzi furono trasferiti a Niedernhart e un giorno
Theresia vede due pullman accostarsi al portone d’ingresso e riconosce i
ragazzi handicappati. Qualche giorno dopo qualcuno passandole vicino dice
ridendo: “Un’opera di bontà averli annientati tutti…”
Commenta Theresia: “E’ stato quel giorno che
ho capito di non poter più restare là, volevo urlare al mondo quello che stava
succedendo, non m’importava se mi ammazzavano…mi sentivo sporca”. Una
testimonianza altamente drammatica sul fosco tempo di guerra e poi il racconto
si dipana finché Clotilde per render giustizia a Franz che quando fu ucciso era
appunto sulle tracce della criminale nazista, riconosciuta nella foto ed allora
vivente a Nervi. Riesce a rintracciare la tata del console svizzero e ad acquisire da lei notizie sul secondo
matrimonio di lui. Così potrà far arrestare la mazista con il marito, non
appena scesi dall’aereo che li aveva portati a Buenos Aires e dove credevano di
essere al sicuro. Vengono ricuperati pure i gioielli sottratti a decine di
famiglie ebree.
Un romanzo avvincente anche per la trama
complessa, documentata con fatti, che ci presentano una Nervi lontana in un
tempo che sembra incredibile possa essere esistito così.
Da rimarcare la dedica del libro perché Clotilde, alias Silvana che in lei ha messo
tanto di sé, sembra voler consegnare come stella polare per l’istruzione dei
giovani queste parole da I proverbi di
Salomone: “Ascoltate, o figli, l’istruzione del padre. E state attenti ad
imparare la sapienza”.
La Passeggia a
Mare di Nervi
Quanto alla bella passeggiata a mare,
orgoglio di Nervi, da giornalista ho memoria di quando avendo chiesto
informazioni per un articolo ad un capo
della polizia (con ufficio in viale delle Palme), questi mi disse: “Tutte le
mattine, alle 11, con alcuni dei miei vado a presidiare la passeggiata
(frequentata non da malviventi ma da madri con i passeggini!)”. A Nervi c’è
anche un consolato russo e una volta il console si espresse più o meno come il
capo della polizia, affermando che a Nervi stava così bene che gli sarebbe
dispiaciuto rientrare nella sua madrepatria.
Jonne Bertola
Swinging Giulia
“Bello, proprio bello”, ho detto chiudendo
il primo romanzo della giornalista Jonne Bertola, che divide la sua vita tra
Milano e Bobbio, che proprio oggi 13
luglio, festa di San Enrico, nel 1014 è stata proclamata città da quell’imperatore. E il commento non sembri
esagerato: sono abituata a scrivere recensioni perché, negli ultimi 10 anni da
giornalista (fino a metà 2013) al Giornale
(pagine di Genova) , uscivo ogni volta dalla redazione del capo,
Massimiliano Lussana, un ragazzo innamorato del libro e della cultura, con una
pila di testi, inviati dai lettori, che tenevo poggiati sulle braccia conserte.
Mi arrivavano sotto il mento con cui li tenevo fermi ed ero strepitosamente
felice perché nel 1983 avevo iniziato appunto al Giornale il mio giornalismo, sognando allora di scrivere
recensioni. Privilegio che mi è stato concesso
agli sgoccioli.
“Bello perché?” chiederà qualcuno, per capire.
Nell’elenco di pregi del libro inizio dal
finale che piomba improvviso con la morte di una delle due protagoniste: la
nonna Giulia e sua nipote. Nina, la nipote, è orfana di madre, medico
volontario in Africa dove aveva preso il virus dell’Ebola e quindi da lei cresciuta. Il finale è un
ultimo colpo di scena. “Un incidente” spezza l’affascinante e ben congegnato
racconto con le parole: “Pezzi di
ferro, di stoffa, di gomma, di carne…e poi è tutto buio, non sento più niente,
niente”.
Per non togliere al lettore la suspense, non
gli svelo chi è a morire delle due protagoniste. Nello sfondo di questo buio
improvviso c’è la deflagrazione di un attentato, a Parigi, provocato proprio
dall’autista del mini-bus che le stava portando dall’albergo al Festival del
Cinema Indipendente delle Ville
Lumière. Dove, con quasi certezza, Nina già quasi di professione regista, un
premio l’avrebbe ricevuto.
Come in un fotogramma lo sguardo
dell’autista attentatore rivela: “Odio. Rabbia. Follia. Paura.” E sono pupille
“drogate” quelle dell’uomo, che si fa
esplodere come un proiettile: uno dei non pochi momenti che nel recente passato hanno insanguinato la nostra
Europa.
“Bello il libro”, perché lo sguardo
giornalistico di Giulia - cui Jonne dà tanto di sé - ripercorre questo passato, così recente da essere attuale, ma
anche perché va alle radici, disseminando le pagine di luoghi e personaggi
della nostra cultura. Sempre però senza annoiare con quel modo di raccontare
che è richiamato da un titolo noto: “L’incredibile leggerezza dell’essere”.
Giulia sembra giocare tra film famosi, libri
cult e musiche immortali in un concetto
unico della gran bellezza raggiunta dai
nostri quasi contemporanei. Pensando che la musica è matematica (così
m’insegnava una mia lontana insegnante parlandomi di Bach) uno dei personaggi
del libro è un matematico che il suo professore di ripetizione (era stata
rimandata in questa materia) le fa amare: “lo studente ribelle, incompreso,
ingiustamente bocciato Evariste Galois, praticamente il fondatore dell’algebra
moderna.
Tra i personaggi non può mancare il regista
bobbiese Marco Bellocchio, che in questa città, sovvenzionato dalla Regione, ha
dato vita ad una scuola di cinema in concomitanza con un festival che annovera
ogni anno nomi importanti. Però l’autrice dice che all’origine il cinema di
Bellocchio (tanto coccolato dalla sinistra e dai salotti radical-chic) non la
conquistò: quelle scene così buie dei Pugni
in tasca le provocavano una sensazione di claustrofobia e non le
interessava la denuncia dell’ipocrisia borghese-politica-religiosa.
Un inciso (permettete): Dato che i miei
nonni abitavano in via IV Novembre, tramite una zia amica della sorella del
regista, tanto sapevo fin da bambina di quella famiglia di persone
intelligenti, ma segnata da gravi lutti. Per cui nel film, lontano nel tempo,
leggevo i turbamenti e il dolore di un giovane che cresce, Marco, davanti a
quegli eventi drammatici. Provavo un senso di condivisione, di compassione
proprio nel senso “di patire insieme”,
“non di piangere su qualcun altro”. (Una notazione di cronaca: mia
madre, molto sensibile, a Genova vide subito il film e le piacque).
Giulia dà un giudizio sui film di
Bellocchio: “ponevano domande”, anche se s’incanta ben diversamente sul set di Blow Up del 1966 quando il regista
Antonioni fa una scenataccia perché vuole che la colonna sonora del film sia
come “il rumore del vento fra gli
alberi”, quello che sentivano in quel momento.
Tutti penetranti i giudizi della giornalista
su questi personaggi mitici che incontra e di cui dà solo flash, ma che ti
entrano negli occhi nel cuore nella mente. Del maestro Muti, una volta che lo ascolta dal vivo al Teatro
Municipale di Piacenza, dice: “portava i giovani musicisti di nota in nota, nel
battito di ogni singola nota, singola e nello stesso tempo inseparabile dalle
altre”. Da notare anche la sapiente precisione di scrittura e lo definisce “un
grandissimo insegnante. Generoso.”
A Bellocchio, nella galleria dei tanti
famosi, riserva un posto particolare proprio perché ha fatto amare alla nipote
Nina la regia che diventerà la sua strada. Giulia fotografa “un momento di
pausa del regista tra gli allievi, in una contrada del centro storico,dove un
sole senza scampo si tagliava prepotente la sua pista di luce”: “questi gli
fanno ala come i discepoli intorno a
Socrate per le strade di Atene”.
Non manca nel romanzo una grande storia
d’amore tra Giulia e lo scozzese Alan che lavorava per il “mitico” National
Geoghraphic e da cui avrà un figlio, reporter di guerra che una volta – molto
aspro – la cataloga per le sue cronache mondane come scrittrice di frivolità e
da salotto. Figlio critico anche verso il padre in quanto ricercatore di
tradizioni.
Invece proprio la tradizione - in senso lato
- è un collante tra i suoi genitori.
Giulia ne è amante, pur se non di quella esotica: la cultura, i libri,
gli spettacoli, gli attrezzi da lavoro che vedeva utilizzati dal padre e i cibi buoni e sani che si gustano proprio a
Bobbio. Sono due innamorati “uniti e allo stesso tempo meravigliosamente
liberi”. Il marito la porta con sé in viaggi lontani, come nel Capodanno del 1975, quando approdarono tra i
primi turisti europei all’isoletta di Bangaram nell’arcipelago delle Laccadive
(Oceano indiano).
Per Giulia nel turbinio di luoghi e di
viaggi Bobbio, con la sua Abbazia e con l’interesse per il cinema di Nina,
diventa un porto.
Ma succede qualcosa di incredibile. Se a p. 25 troviamo la Torre Branca di Milano
(“non più alta del Duomo perché nulla si poteva costruire di più alto” - buona
notazione di cultura- ), la ritroviamo
a p.107 come un indizio che farà capire un po’ di più a Nina un mistero, legato
al passato di Gulia giovane.
Incredibile il modo con cui Jonne sa
incastrare gli avvenimenti: con un salto altrettanto ampio, spaziale e
temporale, Giulia ritrova a Bobbio un’infermiera che aveva conosciuto da
giovane e di cui sapeva solo il nome Rosa: questa aveva trovato lavoro presso i
dottori Ettore e Fede Simonetti, appassionati collezionisti d’arte che, alla
morte, non avendo eredi, le avevano lasciato tutta la collezione. Rosa, poi
sposata Mazzolini, a sua volta la dona
al Monastero di S. Colombano.
Non a caso la dedica del libro è per Lei,
perché al momento della donazione, proprio a Bobbio con l’esposizione
nell’Abbazia, le è nata l’idea di questo libro: Bello, confermo, davvero bello!
Velia Galati Tessiore
Bambini Killer
Per ricordare la lunga
attività di Velia, sempre al servizio degli altri nella CRI, mi servo di un mio
antico articolo per poi dare spazio con parole sue a questo terribile
argomento: bambini che diventano assassini.
Bambini
Killer- Insegnanti vilipesi e aggrediti:
due fenomeni, mai conosciuti?
Come quei
corsi d'acqua sotterranei che scaturiscono d'improvviso, per poi inabissarsi, fino al prossimo deflusso, così il fenomeno dei ”baby killer”, e quello degli insegnanti
vilipesi e percossi, sono rimasti ignorati, fintanto che sono esplosi in episodi di inaudita gravità.
E' stato allora sollevato il velo della cattiva coscienza
collettiva su quella patologia
sociale che è la violenza
contro l'inerme, l'indifeso, l'incustodito dalla Società.
Il sipario del silenzio
si è sollevato solo su episodi di
tale, sconvolgente, drammaticità da farli ritenere eccezionali, sconosciuti, mai visti, come quello dei bambini
killer e quello degli Insegnanti
insultati, umiliati, malmenati e persino accoltellati,
da studenti e da loro Genitori In realtà, era risaputo
che, in relazione a fattori
di ordine socio-economico e socio-culturale, la
condizione dei soggetti in età evolutiva, adolescenziale e pre-adolescenziale, presentasse
aspetti di grande e crescente problematicità, se un rilevante numero di minori aveva già un conto aperto con la giustizia.
E, poiché il dato numerico vale come indicatore di un diffuso malessere sociale, che non sempre si traduce
in comportamenti devianti
statisticamente rilevati, è di tutta evidenza che una quota elevata della
popolazione minorile vive una situazione gravemente compromessa,
e sperimenta
una povertà materiale e immateriale
destinata a prolungare
i suoi effetti oltre la soglia dell'adolescenza.
La Società ha
dovuto rendersi conto che era un mito
l'immagine dell'infanzia e dell'adolescenza come l'età dell'innocenza e, semmai, delle innocue marachelle
Già nel 1970, lo psicologo
svedese Dan Olwens aveva portato
alla luce il fenomeno
dell'adolescente prevaricatore, violento
persecutore di coetanei
e di bambini più deboli e
indifesi, veri “enfants crible” di questi
giovani delinquenti.
L'ordinamento giuridico ha oscillato, nei loro confronti, fra criminalizzazione e proposte di
fatto assolutorie; ed astratte teorie pedagogiche, psicologiche e psichiatriche hanno
affrontato il problema con le armi
loro proprie; ma è mancata
l'analisi e la valutazione sociologica.
E' prevalsa l'analisi del fenomeno
sulla ricerca delle condizioni politiche, culturali
e sociologiche che ne avevano
permesso, oltre che la nascita, l'impunità e l'aggravamento.
Non si possono estrapolare i fenomeni dalla società che li produce, in cui nascono e si
esprimono; ed allora rendiamoci conto di quanto influiscano sui modi di pensare,
sugli atteggiamenti, e sui comportamenti degli adolescenti, e dei bambini, la
Televisione, il Cinema, gli spot pubblicitari, ed anche la Politica, nelle sue manifestazioni faziose, settarie,
ed aggressive.
Non si tratta di individuare le cause del fenomeno nel permissivismo e nel lassismo della famiglia e della scuola,
che, certamente, hanno spesso considerato atteggiamenti e comportamenti arroganti ed insolenti come manifestazioni di giovanile vivacità;
si tratta, invece, dell'affermarsi di una cultura di eccessiva
tolleranza, legittimatrice del disimpegno morale degli adulti, sostenuta, anche, da una stampa
alla ricerca dello scoop, della notizia sensazionale, banalizzata, talvolta,
da una irrilevanza burlesca, come quella
che, nei lontani anni
'70, attribuì a giovani teppisti l'appellativo,
benevolo e ammiccante, di “piccole pesti”.
E “piccole pesti” furono,
per la
stampa, i tre giovani protagonisti di una rapina di 33 milioni e
di un tentato omicidio, “assolti”
perché “hanno visto troppi
films”, come avevano concluso i carabinieri. (settembre 1997- Secolo XIX)-
E “Pierino la peste” era il giovane che, nella notte del 22 novembre del '97, aveva lasciato un'auto
sui binari della ferrovia di Sestri,
”non
ha la patente, ma sa come forzare le serrature di una macchina” e “si diverte a provocare incidenti
stradali”. Fortunatamente, l'intervento della Polizia riuscì ad
evitare un disastro, fermando il convoglio proveniente da Genova.
Nel 1997, si fece conoscere la “gang degli autoscontri”, della quale faceva parte il già noto ”Pierino la peste” che, come
ammise alla Polizia,
aveva rischiato di investire
un poliziotto che voleva impedirgli
di rubare un'auto,
e del quale, con altri amici, ”per gioco”, aveva rubato
e distrutto la macchina di servizio.
Bambini arruolati dalla
Mafia, attivi nel traffico di droga: don Andrea Gallo: ”non volevo
crederci, ma è la realtà” (secolo XIX-17-gennaio
1997)
Con maggiore o minore tossicità, episodi di criminalità minorile
si sono presentati su tutto il territorio nazionale: quelli che un tempo
erano “bravate” hanno assunto forme
criminose. Non si tratta di distinguere, per catalogare, le tipologie
dei baby-killer, non si tratta solo di
analizzare una mentalità dissociativa, o, comunque patologica, ma, piuttosto, di esplorare
gli ambienti disfunzionali, di valutare
i livelli culturali
in cui è germinato l'evento scellerato che, peraltro, si inserisce nel più generale
svilimento della funzione
pubblica: le leggi per
combattere la violenza in tutte le sue manifestazioni ci sono, ma non vengono applicate. E' una sensibilità sociale che va ricostruita sulle macerie
morali di questo tempo,
che
sono lo specchio dell'edificazione morale
derivata da serie televisive quali “Gomorra”
Ad un diverso
ramo del bullismo appartenne, ancora negli ani '70, il “Programma finalizzato
alla
classifica degli Insegnanti più strapazzati ,
programma della genovese “radio libera di Albaro”, che così fu pubblicizzato: “Adesso c'è anche la “rivincita degli studenti ”, l'”hit parade” dell'insulto
al
Professore. Dalle 21 alle 21,30, uno studente
può vendicarsi di un voto
non
gradito, di un rimprovero, di una semplice
osservazione, o, addirittura di un consiglio, come quello, ad un giovane scooterista di indossare
il casco. Coperto dall'anonimato,
l'ardimentoso denigratore addita al pubblico ludibrio, con nome e cognome, il “colpevole”, imputandogli ignoranza,
impreparazione, finta democrazia,
e ridicolizzandone l'aspetto
fisico: sei goffo,
sciancato, rantego, nasone,
pelato, nano, ed altre accuse oscene, se,
del caso, volte al femminile.
“I Professori
nell'occhio del ciclone-
commenta un giornalista- mentre i precari scioperano da anni inutilmente... a Genova qualcuno
ha inventato il gioco perfido che gira il coltello in una
ferita storica della categoria, la paura del ridicolo ”
Indubbiamente, da allora, non solo nulla è cambiato, ma il fenomeno
si è inacerbito, se tutti i mezzi di comunicazione di massa riportano episodi di ingiurie
ed anche di aggressioni fisiche
compiute contro insegnanti da parte di studenti e, persino,
dei loro genitori. Sono cambiati
soltanto gli strumenti dell'offesa, dell'ingiuria e della calunnia,
che il progresso tecnologico ha reso più raffinati,
più affliggenti.
Episodi di umiliazioni,e aggressioni verbali e fisiche inflitte a Insegnanti
affollano oggi tutti i
mezzi di comunicazione, anche con
la possibilità di prenderne cognizione visiva.
Nulla è cambiato, perché,
oggi come allora,
è venuto a mancare il giusto riconoscimento sociale, che è alla base del rispetto e della considerazione del ruolo; ed è paradossale che i genitori, i quali dovrebbero
interagire con i docenti
in un comune progetto
educativo dei figli, si arroghino il diritto
e il compito di controllori, di giudici, e, infine, di giustizieri; fino alle punizioni
corporali.
Un alunno di prima media si diverte
a lanciare chewing-gum sui capelli
dell'insegnante; un diciassettenne ha sfregiato con un coltello, il volto della sua Professoressa, viene accoltellato
Un docente di Caserta e, sempre nel casertano, un altro Insegnante è
stato preso a pugni e calci. A Treviso un Professore è stato picchiato da
Genitori, a Foggia un vice Preside è stato aggredito, stessa sorte per un
altro, ad Avola. La persecuzione degli Insegnanti in alcune zone di Italia è in
mano alla Mafia, è in mano a piccoli mafiosi; e riguarda questi “cattivi
ragazzi” l’”Operazione hod guys”, i ragazzi dediti al ricatto, all’estorsione,
agli incendi, più vicini ai Kamikaze, ai “leoncini” dell’ISIS che ai muschilli
degli anni 80.
Se gli Insegnanti si sono rivolti al Capo
dello Stato per ottenere una legge che tuteli la loro integrità fisica e la
dignità del loro ruolo, se il Capo dello Stato ha ricevuto ed insignito di una
benemerenza un’insegnante che era stata sfregiata con una coltellata nel volto
da uno studente, mille e mille altri vivono esperienze di estrema gravità.
Non è estraneo a questo fenomeno di minorile
delinquenza l’aver tolto alla scuola il meccanismo di selezione degli alunni,
dai sette ai sedici anni, lasciandole, tuttavia, il dovere e la responsabilità
dell’istruzione e dell’educazione. E non è estraneo il mancato ricambio
generazionale del Corpo Docenti, che è il più anziano fra quelli europei. E non
è estraneo, anzi, ad esso pertinente, la famiglia; a fronte di episodi di così
grave maleducazione, ci si domanda: “ma da che famiglia provengono questi
ragazzi che ci lasciano esterrefatti con le loro scelleratezze?
Con la diffusione dei filmati mediante
Whats’s App, ad opera degli stessi
autori degli atti delinquenziali, abbiamo assistito, per così dire, in diretta
alla “bravata” dello studente lucchese che, con l’accompagnamento di triviali
risate dei compagni di classe, incalza il Professore con il casco da moto,
tenta di strappargli il registro e così lo apostrofa: “Professore, non mi
faccia incazzare, non mi faccia incazzare”; rovescia sulla cattedra il cestino
dei rifiuti ed ordina: “in ginocchio e mi metta sei, qui comando io. Capito chi
comanda?”
Stupefacente la non reazione dell’Insegnante
che minimizza i fatti, non li denuncia, quasi li giustifica. Nessuna obiezione
alle violenze fisiche e verbali del suo alunno. Non Parliamo di “sindrome di
Stoccolma”, certo che no, però il comportamento di questo insegnante è quello
di resa incondizionata di chi si sente incapace di reagire ed anche protetto
dalla Società:
Giorno dopo giorno, di Regione in Regione,
si compiono atti ingiuriosi, arroganti contro i docenti, da parte degli
studenti, talvolta affiancati dalla violenza dei loro genitori. E’ stata dunque
abbandonata e sconfessata quell’alleanza fra Scuola e Famiglia, fra insegnati e
genitori, che, posta alla base di un processo di ammodernamento, avrebbe dovuto
portare la Scuola italiana ai livelli europei.
L’Istituto inglese “The Economist
Intellligence” ha stabilito una classifica mondiale delle Scuole e la posizione
della Scuola Italiana è allarmante! E se gli indicatori di valutazione, nel
rapporto 2017 dell’OCSE comprendono la considerazione del ruolo dell’Insegnante
e la “Comunità”, cioè quanto Genitori, Insegnanti ed Alunni collaborino
insieme, non ci si può stupire che l’Italia sia la penultima nella graduatoria.
La mancanza di attrattiva (il discredito
della professione e stipendi assai inferiori alla media europea) ha impedito il
ricambio generazionale , così che il Corpo Docenti è il più anziano rispetto a
tutti gli altri, secondo la relazione dell’OCSE. Insomma, l’insegnamento è
considerato un ripiego per chi non ha di meglio.
Non la pensa così il Presidente di “Pearson
italiana” che scrive sul Corriere della Sera: “fare il Professore deve essere un privilegio per chi ha la laurea, non
meno prestigioso di altre professioni, come avvocato, ingegnere”.
Velia Galati
(Dottoressa-Psicologa)
Medaglia d’oro al merito della
Sanità Pubblica
VITO MOLINARI
‹‹I COMICI da Petrolini a Villaggio››
Conferenz del 29 marzo 2019 alla Berio di Genova
per la Dante Alighieri FRANCESCO DE NICOLA,
presidente della Dante da tanti
anni, è sempre ideatore d’innovative
attività e conferenze
Il 4 gennaio 1954 Vito Molinari ha diretto
la trasmissione inaugurale della tv italiana. Da allora ha realizzato, come regista
e autore, più di duemila trasmissioni televisive di vari generi, tra prosa,
rivista, operetta, sceneggiati e balletti; ha diretto cinebox (antenati della
attuali videoclip) e 500 caroselli. In teatro ha diretto molti spettacoli di
prosa e di rivista; ha realizzato una collana di dischi sull’operetta (1960) e
una storia discografica dell’’operetta. E’ stato regista di famosi musicals, ha
diretto più di 60 operette per il Festival di Trieste e per gli Enti Lirici di
Napoli, Cagliari, Roma, Torino. Ha scritto e diretto spettacoli teatrali su
Petro, Campanile, Marchesi e Mosca; sulle canzoni satiriche, suo cantautori
francesi, su Totò; nel 2009 ha realizzato 40 dvd su Carosello per il <<Corriere della Sera>> e la
<<Gazzetta dello Sport>>.
Libri:
Vito Molinari e Mauro Manciotti, TuttoGovi, Genova, Marietti, 1990;
Vito Molinari, La Rita Smeralda, Sestri Levante, Gammarò, 2017;
Vito Molinari, Le mie grandi soubrettes, Roma, Gremese, 2017;
Vito Molinari, I miei grandi comici, ivi, 2018;
Leandro Castellani, Umorismo e comicità, Roma, Studium, 2010;
Ghigo De Chiara, Ettore Petrolini, Bologna, Cappelli, 1959;
Mauro Macario, Macario, un comico caduto dalla luna, Milano, Castaldi, 1998;
Valentina Patavina e Paolo Villaggio, L’epopea di una maschera: Paolo Villaggio,
Torino, Einaudi, 2009