2019 -  GEMME RITROVATE

                       

                                       INDICE

 

 

 

1)   Jimmie Moglia - maturità 1957 -  al D’Oria è tornato

2)   a Genova per incontrare i compagni di liceo

3)   Foto della mia III C al D’Oria - 1961

4)   Paolo Filippi, Le sorelle Bruno 2003

5)   Paolo Antognetti, L’Isola Sacra 2017

6)   Puni Minuto, La festa di compleanno 2009

7)   Silvana Canevelli, La villa arancione 2014

8)   Jonne Bertola Swinging Giulia 2019

9)   Velia Galati Tessiore, Bambini Killer

10)                    Vito Molinari: i comici da Petrolini a Villaggio 2019

 

 

 

 

 


Premessa: 

Inserisco il testo di un ex allievo del D’Oria (maturità 1\957) e poi la foto della della mia III liceo al D’Oria (maturità 1961) tre foto di compagni della III Liceo al D'Oria.

 

     

 

 

 

 

 

In prima fila dal basso e terza da sinistra Marite Cacia, cognata di Paolo Filippi di cui ho messo la recensione al suo  Le sorelle Bruno.

In prima fila dall’alto Paolo Antognetti di cui ho messo la recensione a L'Isola Sacra

 Nella fila centrale Puni Notte Minuto di cui ho messo la recensione a La festa di compleanno.

 

 

                     Jimmie Moglia

                              Storia d’Italia

 

Jmmie Moglia, ingegnere, vive a Portland in Oregon con la sua gatta Chavette. E’ stato in Italia nel 2011 per presentare il Nostro Dante Quotidiano (NQD), dizionario di citazioni dantesche, che attestano il suo amore per il suo Paese d’origine. Prima di NQD aveva pubblicato un dizionario con le citazioni da Shakespeare. Nell’ultima foto con Gaber è di quando suonava alla Bussola (e suonò anche al Covo di Nord Est per mantenersi agli studi d'ingegneria. Jimmie è il suo nome d’arte poi adottato per la vita quotidiana.

 

 

 

Qui sopra Jimmie nel suo studio a Protland davanti alla collezione di libri rari e antichi di cui è orgoglioso e come sta parlando dai suoi video storici citati a fondo pagina.

Quindi il mio articolo sulla sua rimpatriata a Genova con compagni della III B, maturità 1957 al Liceo D’Oria.

E poi dato che nei giornali lo spazio è prezioso e come diceva il poeta e giornalista Giovanni Raboni "solo dai giornali s'impara la brevità" una versione un po' più estesa dell’articolo che è uscito con le 30 righe soltanto come mi era stato richiesto (io però cerco sempre di sforare per il fatto dell’hic et nunc).

 Jimmie Moglia, che nel 2011 ha presentato alla Berio con una sala Clerici affollatissima il  Nostro Dante Quotidiano (sigla NQD),  e’ venuto a Genova per una riunione con i suoi compagni della III B al  Liceo  D’Oria:  maturita’ nel 1957. Fondatori dell’iniziativa: Ambrogio Caresano e Franz Bolte.

Per notizie su Jimmie, che ha studiato ingegneria a Genova, trasferendosi dopo la laurea a Portland , basta accedere al  Sito: www.yourdailyshakespeare.com. 

Su questo come pure sul sito www.thesaker.is si trovano molti dei 550 articoli, tutti di 3000/4000 parole su argomenti politici della storia attuale, che su Facebook gli hanno guadagnato grande seguito di followers.

Con parole sue, la genesi della rimpatriata a Genova che -  come idea - nasce lo scorso 25 dicembre. “Per  voi e' gia' il mattino di Natale, ma qui, a Portland, e' la vigilia. E per me, ricordi inaspettati si presentano alla mente.

Qui a Portland (Oregon), dove abito da decenni, conduco vita che non esito a definire frugale e certosina. Cavalco il mio cavallo meccanico (leggi bicicletta) e d'estate navigo col mio yacht molto francescano (leggi kayak a propulsione umana)! La notte di Natale ascolto canti natalizi e la mia gatta Chavette mi guarda. I ricordi volano: non mi sento uno Scrooge di Dickens, non faccio un bilancio della mia vita nel senso che so di non essere stato “né troppo buono né troppo cattivo” ma tant’è… Da quella nostalgia-maliconia del Natale scorso è nata l’idea di una rimpatriata a Genova con i compagni della III B, appena conclusa: eravamo in sei.

“Ricordi del Liceo e dei nostri professori: la Sacheli, docente di matematica, con il suo ‘cannocchiale alla rovescia’, lo strumento con cui pigri studenti avrebbero visto la maturità) . Il bonario scetticismo del Prof. Galimberti, la genuina bonta' del Prof. Puppo. 

“Ricordo -ed è per me doloroso ed indelebile- il suicidio di un compagno di nome Bianchero (figlio dei titolari dell'omonima e famosa rosticceria in Via XX Settembre). La professoressa Gasti: la buonanima! che si sarebbe meritata uno zero in psicologia, si accaniva contro di lui, senza alcuna considerazione per come si sente un teenager, umiliato e fatto sentire inutile.

“Ricordo ancora  un'iniziativa  'rivoluzionaria' della nostra III B: il lancio di un giornale scolastico intitolato 'SOS', nel quale si faceva riferimento ai professori, con garbata ironia. Alcuni di loro si sono infuriati. Ranieri, docente di educazione fisica, comunico' arrabbiato che non avrebbe mai piu' voluto vedere il suo nome in alcuna pagina del 'SOS". Nel numero successivo, ad ogni pagina appariva in calce la scritta: ‘Come vedete, neanche in questa pagina compare il Prof. Ranieri’.”

JM mi contattò come giornalista ed ex doriana per notizie su Emanuele Gennaro, mio insegnante di filosofia i cui testi sono alla sezione storica della Berio: l’uso e la disciplina della memoria è il “ponte” tra le sue ricerche e la pittura filosofica di Gennaro (che ebbe gran fortuna in Russia).   L’idea madre e’ che concetti astratti hanno alla loro radice un parallelo grafico.  JM ha sviluppato una “APP” che “celebra il matrimonio tra la stampa e l’Internet,” agevolando in un modo abbastanza divertente, la memorizzazione delle citazioni.

JM ha scritto, tra l’altro, due dizionari da lui definiti “utili, inusuali e unici”, su Shakespeare e sulla Divina Commedia di Dante. Quello su Shakespeare si intitola “Your Daily Shakespeare – an Arsenal of Verbal Weapons to Drive your Friends into Action and your Enemies into Despair.” Quello su Dante, “Il Nostro Dante Quotidiano – 3500 modi di cavarsela con Dante.” Il dizionario Dantesco, pubblicato dalla Regione Toscana, è  accessibile gratuitamente su Internet.

JM nella sua ‘terza vita’, - come la definisce - produce video storici per un canale televisivo dell’Oregon, e per un’università di Portland. E  si scopre un intatto amore per l’Italia perché questi video (è arrivato al III) riguardano la nostra storia, me cito uno perché vi è il riferimento agli altri due: “Episode #60 – History of Italy, part 3 -https://youtu.be/KYQtoRhPwJ0 - in cui arriva a Romolo Augustolo”.

 

                               Maria Luisa Bressani

 

Episode #58 – History of Italy, part 1 – https://youtu.be/9_7b1l3mI1A
First Episode of the History of Italy. How the fortunes and  misfortunes of the Chinese empire influenced the last stages of the Roman Empire.

Episode #59 – History of Italy, part 2 – https://youtu.be/rOcVIz4DSF0
The Goths run from the Huns and Alaric sacks Rome – while the chicken-loving Honorius, emperor of the West, finds refuge in Ravenna

Episode #60 – History of Italy, part 3 – https://youtu.be/KYQtoRhPwJ0
The Huns and the Vandals in Italy. Official end of  the Western end
of the Constantinian Empire. Romulus Augustulus, last official emperor of the West
.

 

 

 

              

              

 

 

                                      

 


 

               Paolo Antognetti

                        L’isola Sacra

 

 

                                      

(la foto è tratta da quella della nostra III C, prima della maturità nel 1961. D’altronde Paolo oggi sembra quello di un tempo).

 

                         Premessa.

 

Paolo Antognetti è un ingegnere che vive in Svizzera e, di ritorno dall’America e dalla Silicon Valley dove ha speso i suoi primo anni lavorativi, ha insegnato a Genova alla Facoltà d’Ingegneria.

In un esame ha interrogato mio figlio Cesare, allora studente ad Ingegneria.

Ricordo ancora il momento di suspense circospetta che lessi negli occhi di Antognetti quando gli dissi ad una rimpatriata della nostra III C del D’Oria: “Sai che mio figlio ha dato un esame con te?” E lui: “Quanto gli ho dato?”  Ed io: “28!” Paolo subito si rasserenò alla mia risposta.

 

Da qualche tempo Antognetti si è scoperto una passione di scrittore. Sostiene che è un germe (corroborante!) che il nostro Prof. di Lettere al D’Oria, Pietro Raimondi, ha inoculato in noi allievi (più d’uno infatti gli scrittori della nostra antica classe). Ad onore del nostro Professore  sono  tutte sue le prefazioni agli autori di lingua spagnola della splendida Collana dei Nobel della Utet.

Antognetti ha esordito con L’arte di vivere a lungo (Edizioni Mediterranee, 1996), presentato alla Libreria Di Stefano a Genova in piazza Dante e dove eravamo in tanti compagni a fargli festa, in primis la nostra  Chicca, che non è più, di cui allego la foto da sposa, e che molto si attivò per pubblicizzare il testo.

 

 

                           

 

 

 

Con un po’ di nostalgia  dei nostri anni di liceali chiamerò l’autore  per nome, Paolo. Non tutti però ricordano come me e Giorgio Schiano di Pepe, un altro compagno e professore universitario, mi ha confidato che  sono stati “i più brutti della sua vita” al punto da non voler nemmeno rivederci nelle nostre cicliche rimpatriate.

Paolo ha scritto anche Le radici del futuro e considera queste sue due opere nel sapore dell’autobiografia.

 

            I libri si trovano on line sul suo Sito:

                        www.antognetti.it  

 

Da professore universitario ha pubblicato testi di tecnologia in inglese. Ringraziandolo per avermi inviato L’Isola Sacra e Matrimonio nel deserto (di cui allego la suggestiva copertina), dopo accurata lettura dell’Isola, scrivo cosa ne penso premettendo che è stata una lettura “insolita ed  affascinate”. Agli esordi da giornalista (1983) sognavo di leggere libri e recensirli, mentre  poi il mestiere mi portò a scoprire tanti aspetti diversi della nostra cultura e tanti progetti e necessità della Gente. Negli ultimi dieci anni al Giornale (pagine di Genova) ebbi però la gioia di poter scrivere tante, tante recensioni.

 

 

 

 

                  Antognetti

 

 

                  

             Il “Per Aspera ad Astra” è il simbolo premesso al Sito

 

 

 

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                         L’Isola Sacra

 

                    

                

 

                             

 

 

                     

In copertina la rosa de venti che sembra rassicurarci sulla libertà di rotta.

Nel risvolto di copertina  Paolo risponde alla domanda se questo sia un romanzo autobiografico: “Per alcuni aspetti: ho amato andare per mare, in particolare con la barca a vela, a visitare le isole del Mediterraneo”.

Tra i suoi autori preferiti indica quelli di libri d’avventura che lo hanno accompagnato lungo tutta la vita e ricorda: Jules Verne, Jack London, Morris West, Emilio Salgari, Michael Morpurgo, Wilbur Smith, Ruyard Kipling.

In questo libro è molto importante la dedica al nipote Francesco, l’unico – per ora  - che ha avuto dai suoi quattro figli: “Perché il libro susciti in lui un rinnovato interesse, una vera passione, per la lettura”.

Primo punto di forza del libro è proprio la trama che segue la storia di  Gunnar Kloster, professore universitario di Etnografia del Pacifico, figlio di Thor, capitano della marina mercantile norvegese e di  Kawena Kienga, donna delle Isole Marchesi, morta mentre lo partoriva nell’ospedale di Honolulu, una settimana prima di Pearl Harbour. Gunnar non ottiene la cattedra universitaria in questa disciplina perché in una monografia, scritta proprio per accedervi,  ha dato per scontata l’esistenza di un’isola polinesiana, non ancora segnata in nessuna carta geografica. Gunnar sostiene che è certo dell’esistenza dell’isola e che tutto ciò che sa glielo ha insegnato suo nonno Kaloni Kienga.

Il libro si apre proprio con questo vecchio  sulla bianca spiaggia di Hiva Oa che guarda verso il sorgere della luna. Aspetta che venga l’uomo che lo accompagnerà nell’ultimo viaggio al “rifugio” di tutti i navigatori, sotto la costellazione di Sirio, sotto il sentiero del dio Kanaloa.

L’uomo sarà proprio il nipote che deve provare la veridicità delle sue affermazioni come gli suggerisce il preside della facoltà di Studi Oceanici presso l’Università delle Hawai  (2500 miglia a nord-est dell’isola, di cui provare l’esistenza).

Se la trama si presenta da subito avvincente, già in questa prima pagina e anche dopo, compaiono nomi per noi tuttora un po’ esotici: lo zenzero (oggi abbastanza diffuso nella nostra cucina), i frangipani (pianta originaria dell’America tropicale), il frutto dell’albero del pane, il  fei (grossa pianta rossa più dolce delle banane, il taro (che è una specie di patata). Leggere diventa un viaggio culturale tra nomi per noi come di un altro mondo, pensando che la tradizione culinaria di un luogo è la sua cultura.

Altro punto di forza sono le leggende polinesiane  come questa del “viaggio finale della vita" per raggiungere l’Isola Sacra.

Non solo, dato che Gunnar il viaggio non lo può certo far da solo e deve mettere insieme una spedizione (quasi novello Colombo), le pagine si popolano di persone tra cui nascono invidie, sopportazioni, amori. Anche la passione del protagonista con il giovane medico Sally, caratterizzata da accese discussioni, il che avviene tra persone intelligenti ed autonome. Qui e là  massime di saggezza come questa riferita all’universo-donna: “Quello che le donne dicono e quello che fanno sono due cose diverse”.

La spedizione si concluderà con un naufragio sull’isola e di conseguenza la necessità di adattarsi ad una vita primordiale ma aiutati dall’esperienza della cultura occidentale acquisita.

C’è però un grave impedimento: non aver medicine e quindi non potersi curare.

Infine (e chiedo scusa se anticipo il finale) Gunnar riesce a far salire i compagni sopravvissuti su un’imbarcazione da loro stessi costruita e a rimandarli nel mondo civilizzato. Lui resta sull’isola e ne diviene il custode.

Nella seconda parte del libro sull’isola arriva un ragazzino naufrago che con il padre Marco, di origine italiana e la madre Aikiko di origine giapponese,  stava veleggiando verso il Giappone Il padre voleva iniziarvi il suo nuovo lavoro. Marco era giunto in America grazie ad una borsa di studio in Italia e dopo la laurea in Ingegneria elettronica e successivamente un Master e un Dottorato era stato tra i “fondatori” della Silicon Valley, regione a sud di S. Francisco, dove sono nate e si sono sviluppate molte aziende di elettronica digitale.  Erano i tempi delle prime calcolatrici portatili, dei primi telefoni senza fili e dello sviluppo dei “chip”, il cervello di ogni attrezzatura elettronica realizzato appunto in silicio. Poi  Marco con due studenti di Master,  piccoli geni del software, aveva iniziato  a creare giochi per i computer portatili, fondando la “Playmobil”. Ma i due, “traditori”, profittando di una sua assenza per un viaggio a Los Angeles con moglie e figlio, avevano venduto l’azienda a prezzi stracciati ad un’altra più grande, esautorandolo di fatto dall’esser proprietario del 33%.

A quel punto Marco decide di andare in Giappone dove la moglie, potrà lavorare bene nei suoi settori di competenza (massaggi e alimentazione), e lui potrà dar vita ai suoi progetti di giochi elettronici, che  ormai sono meno in espansione in California che in Giappone, dove invece per essi si apre un bel mercato.

La barca a vela di 15 metri, di seconda mano, ma perfettamente attrezzata, viene battezzata Jaimar dalle iniziali dei tre nomi dei componenti la famiglia: Jojo, Aikiko e Marco.

(E qui però c’è un'analogia che intriga: Jaimar è anche il nome dell’Editore dell’Isola Sacra. Perché?).

Jojo, naufrago sull'Isola insieme allo spelacchiato cane Artù, viene “allevato” da Gunnar che precedentemente era stato come “bussola e rosa dei venti" per un altro adolescente Mark.  Questi, figlio di un’amica  aveva partecipato con la madre all’antica spedizione.

Il libro finisce con Jojo che ritrova i genitori venuti a cercarlo.

In Appendice un estratto dal giornale “Marquises-Soir”. Racconta di una festa tenuta ad Hiva Oa, detta “il Giardino delle Isole Marchesi” per festeggiare il nuovo capo, Hunu Kaimuko, conosciuto un tempo come Gunnar Kloster.

Mi ha affascinato nel libro  la “voce di Dio”, la voce che parla dal luogo sacro dell’Isola dove si era ritirato il nonno di Gunnar a morire: quella voce è l’esperienza di Dio, come la chiamavano gli antichi guaritori greci. La voce, nella prima parte del libro, parla attraverso Mark  per richiamare i compagni della spedizione, divenuti naufraghi, a collaborare tra loro e a non farsi “la guerra”. Dice Mark: “Ognuno di voi vuole che il prezzo venga  pagato dall’altro. Io vi guardo e ho paura perché vedo la morte nei vostri occhi…”

Il messaggio di salvezza, che si potrebbe allargare agli uomini tutti, è affidato a due ragazzi e penso: “Paolo ha conservato occhi buoni e sinceri da ragazzo che parlano per lui nonostante l’aplomb e la riservatezza che lo hanno sempre caratterizzato". Concludo: “Paolo ha scritto un libro interessante proprio per la sua cultura, la sua esperienza di un mondo meno  circoscritto di tanti nostri provincialismi e libri ancorati ad un passato, anche storico, ma che più non è”.

 

 

 

 

 

 

 


 

 

                        PAOLO FILIPPI

 

                  Le sorelle Bruno

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

              

 

 

 

Un romanzo, edito nel 2003 con De Ferrari, affascinante per la miniera di notizie che vi si ritrovano sulla Genova di fine Ottocento, su Ginevra e su New York luoghi dove vanno a vivere le tre sorelle Bruno: Alaide, Lidia, Giulia, nate a Livorno e con nel cuore la casa di campagna a Borgo Buggiano, detta il Biurlo, non lontano da Fucecchio, dove nacque Indro Montanelli. 

(Il grande giornalista qui è in una foto da bambino con il padre Sestilio e la madre Maddalena Doddoli)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Paolo Filippi nato a Genova nel 1941, di formazione umanistica, laureato in Economia e commercio nel 1965 con una tesi sull’economia genovese dal 1885 al 1905, padre di due figli, ha lavorato per molti anni in una società petrolifera multinazionale, ricoprendo incarichi operativi in Italia, Francia, Inghilterra. Si è poi dedicato a ricerche d’archivio, per lo più rivolte al ricupero di storie familiari appena intraviste nelle parole ormai lontane dei parenti scomparsi.

Rivolge un ringraziamento particolare a Giulia Galleani Gropallo senza il cui diario e la grande, accurata memoria, buona parte della storia di Giulia Bruno sarebbe andata perduta.

Nel recensire tanti e tanti libri ho maturato una convinzione: gli imprenditori e chi ha lavorato in una grande industria quando prendono in mano la penna offrono interessanti sorprese. Il loro sguardo su fatti e  luoghi è più aperto, più ampio. Hanno una maggior coscienza delle vite vissute: della propria e soprattutto di quella degli altri.

Fin dalle prime pagine risalta la “tradizione” in un pranzo di Natale del 1885 a Genova, in via Serra in una famiglia nobile, la tavola apparecchiata con i piatti di Albisola, bianchi e blu antico (blu inimitabile, il blu attuale è troppo azzurro, un po’ sfacciato, meno nobile): i fritti di latte brusco (che ho ancora trovato in una friggitoria in via S. Vincenzo), i ravioli al sugo, il cappon magro profumato di salsa verde (piatto ora molto in voga) però già allora viene considerato meno buono rispetto a quello  per la stessa occasione del 1882: “il musciamme infatti non era più quello di soli tre anni prima”. E ancora: fritto misto di carne e verdura (la mia passione!), la cima variegata di mortadella, le insalate di tre tipi…

E prima ancora di arrivare a questo punto si è fatto cenno ad un’altra tradizione: il gioco a carte “bézigue”, gioco francese del 19° secolo (non sapevo che esistesse), come più avanti ci sarà l’accenno all’ottima cucina del ristorante “Carlin Pescia” al  Carlo Felice,  e si ricorderà il Caffè Concordia dove veniva Verdi quando era a Genova. Particolari che fanno rivivere il passato Ottocento.

Dove risalta al massimo  come la Storia si mescoli alle vicende dei privati cittadini è nel capitolo intitolato “Sabato 19 febbraio 1887”.  In San Lorenzo si tiene la Messa di suffragio “per i poveri giovani italiani, morti lontano, a Dogali”.

Ad Angelo, marito di Alaide e anche lui protagonista importante del romanzo, viene in mente un altro massacro di 40 anni prima: quando nell’aprile 1849 ben 30mila soldati piemontesi, preceduti da 1600 bersaglieri si preparavano a  sparare sui sudditi genovesi del nuovo re, Vittorio Emanuele II. I genovesi non sopportavano più i 35 anni di dominio piemontese. Dopo la sconfitta subita dai piemontesi a Novara e poi a Custoza, i genovesi pensavano di scrollarsi da questo giogo unendosi ai patrioti di Venezia, Bologna e Parma. Non a caso la sete di libertà dei genovesi è sempre stata così grande che vollero come patrona della città Maria, una regina di cui nessuno poteva essere più grande.

Il 5 aprile il Lamarmora ordina di aprire il fuoco sulla città indifesa, con i cannoni dei forti riconquistati. Si unisce a lui  il cannoneggiamento della nave da guerra inglese Vengeance, ancorata in porto.

I bersaglieri entrano in Genova: “saccheggiano, rubano, uccidono, stuprano…” Questa la storia del massacro!

Non manca, nelle pagine che riguardano il pranzo di Natale da cui abbiamo iniziato, uno sguardo all’imprenditoria genovese con la constatazione  di un gran fermento, un “movimento intorno alle officine Ansaldo”: fondate nel 1853 da  Giovanni Ansaldo e nel 1852  dell’era Bombrini guidate da una compagine imprenditoriale favorita da Cavour. Erano nate per la produzione di locomotive a vapore e materiale ferroviario. Sono state il motore propulsore dello sviluppo di Genova ed è logico che attirassero l’attenzione di giovani desiderosi di affermazione o di legami con la fiorente industria. Tra questi Giovanni, figlio di Angelo e Alaide,  che è stato compagno di banco del figlio di Bombrini  e vorrebbe metter su una fabbrichetta di forniture meccaniche.

Alaide, delle tre sorelle, è la reale protagonista di questo Via col vento nostrano (nel senso di un grande romanzo che affascina).

Angelo Magnasco, il marito, è chirurgo all’ospedale di Pammatone, il più grande ed importante di Genova, ed è nobile anche se di una nobiltà “minore” cioè quella che – come sottolinea acutamente Filippi - deve lavorare per vivere.   Si è innamorato di Alaide  vedendola inginocchiata ed assorta in preghiera nella Chiesa di Sant’Ambrogio. Considerava sogni quelli del figlio “in quanto ha sempre evitato i contatti troppo ravvicinati con le attività mercantili (non gli piacciono e lo spaventano)”, però ora -con cura paterna- vorrebbe assecondarlo. Un carattere riflessivo quello di Angelo, da cui la moglie Alaide che lo sposa ventenne e lui ha già trentasei anni, lamenta di non avere “mai una carezza, mai una risata insieme…” Però – e salto da p.15 a p. 157, quando Angelo capisce che la moglie è affetta da un male incurabile scrive queste parole che sono come la sigla del libro stesso: “Come è duro portare il fardello della conoscenza”. E non le dirà della malattia senza speranza.

Le storie delle due sorelle minori di Alaide, Lidia che si sposterà in America con  marito e figli e Giulia, la più giovane (così giovane  da esser sempre considerata da Alaide una figlia più che una sorella  e che andrà come governante a Ginevra), diventano una panoramica su queste città  e i loro Stati a fine Ottocento.

Non manca una fedelissima collaboratrice domestica Berta che,  nata a Fucecchio, accompagnerà Alaide sposina a Genova.

Una pagina mi ha commosso: quando Angelo si reca alla tomba di Alaide a Staglieno, situata ben oltre la tomba di Mazzini, ben oltre al boschetto dei Mille, così chiamato per i molti garibaldini che vi riposano: una tomba con una semplice lapide bianca e una croce (quasi in contrasto con un cimitero dove le famiglie ostentavano la loro ricchezza e che Agatha Christie in suo giallo definisce del tutto “kitsch”). E lui pensa che “lei è lì sola!”

Questo ampio romanzo, di 350 pagine e tante sfaccettature come un brillante ben tagliato, si può reperire in quanto edito nel 2003 dall’Editore genovese De Ferrari, quindi non mi dilungo sui tanti attraenti particolari: da una tovaglia ricamata portata in America da un capitano di nave salvato dal medico Angelo, alle ferrovie sopraelevate(dette “eleveted”) di New York, città dalle strade lunghe lunghe e larghe larghe… Concludo solo con qualche parola del lungo necrologio per Angelo su “Il Cittadino”. La notizia della sua morte era però stata data ampiamente anche su “Il Caffaro” e sul “Corriere Mercantile”.

Il necrologio parla dell’ “onestà e franchezza di carattere di Angelo, della sua scienza e coscienza nell’adempimento del proprio ministero”. E appena si aggravò, da dottore che sapeva, chiese subito di far venire il confessore.

Anche in questa annotazione un profumo di buoni sentimenti, di buone cose antiche, di valori veri.

 

 

 

 

 

                     

 

                                             

 

                                     


    Puni Minuto    

 

                            

 

 

  

 

 

Questo  agile libretto che ebbe una presentazione affollatissima (vuol dire che in molti stimano e vogliono bene all’autrice) è l’unica opera che ha scritto una donna imprenditrice.

Scritto con tanto humour rappresenta alcune coppie di suoi amici inseriti in un bosco come ne fossero gli abituali frequentatori: la talpa, il leone, il polpo, il camoscio, i piccioni e così via.

E’ uno spaccato della nostra Società nei suoi pregi e difetti.

Di sé nell’aletta di copertina Puni scrive con autoironia:

         

 

 

Il Libro si gusta proprio per l’ironia avvolgente dei vari personaggi e ne trascrivo alcune definizioni.

L’ingegner Talpa cui piace tornare al bosco per cesellare le sue dilette gallerie locali: "Il cesello è arte di pazienza e già lento di suo, se in più lo stoppano ogni volta che incontra la radice di un albero..."

E qui è evidente la critica a chi in Italia si occupa di opere pubbliche, come per stare in tema una metropolitana, ma anche per tutte le altre dove arrivano intoppi di ogni tipo da quelli burocratici alle lunghissime concessioni ecc.  Deliziose le immagini del libro. Alla signora Talpa l’ottima illustratrice, Simona Carola Carrara, ne ha riservata una assai divertente.

                                   

 

Seguono altre definizioni che sono come istantanee dei vari personaggi.

Dell’ingegner Leone, cui è riservato l’epiteto di "vero Jonathan Livingston dell'imprenditoria locale", è messa in risalto la capacità di battute fulminanti e graffianti: “Un bene per tutti – commenta -, perché la melassa è più indigesta del peperoncino”. E c’è l'ingegner Polpo che per tutta la vita ha diretto la produzione di generatori di energia e Capodanno è la ricorrenza in cui dà il meglio di sé con un'autentica vocazione per l'arte pirotecnica”. A difenderlo dalle citazioni che  per risarcimento danni che gli arrivano puntualmente entro il 15 gennaio c’è l’avvocato Volpe: "Si dice che nel portapenne sulla scrivania, insieme alle stilografiche tenga anche un flaconcino di polvere d’antrace". Tra le figure femminili spicca la vedova Gazza, che è l’incarnazione della ruba mariti secondo  un gossip scatenatosi tra le gentili signore. Avvistata ad una prima all’opera insieme all’ingegner Camoscio che con la propria moglie sono considerati una coppia molto affiatata, dopo allusioni sulla  scappatella “operistica” la signora Camoscio sembra non avervi dato peso e non ha risposto al riguardo. La signora Talpa, la Leonessa e la signora Polpo da gentildonne sui sono trasformate in giustiziere condanno a morte la gazza "rubamariti", che è di tutt’altra indole che una  casa/chiesa/ bottega/micio. La signora Polpo ha rivolto in giù tutti gli otto pollici

 

 

 

                             

 

Un pregio del libro è proprio l’originalità della trama: se le tre donne si sono messe in pista per procurarsi il veleno da mettere in una delle tre torte che la signora Polpo è solita preparare nei suoi inviti per caso, l’ingegner Talpa scoprì la trama sul telefonino della moglie e subito convocò Leone e Polpo per salvare la povera Gazza. S’incontrarono alla stazione Brin della metropolitana dove lì vicino c’è una trattoria e lì mangiarono e concertarono il da farsi: però il piano aveva bisogno di aggiustamenti per cui s'incontrarono diverse altre volte.

Succede che all’invito per il delitto uno dei tre va in giardino a fumare e getta per terra il mozzicone della sigaretta ancora acceso che fa esplodere una bottiglia abbandonata con la mistura del veleno. Si scopre pure quando la Gazza raccomanda alla signora Camoscio di ricordare al marito che aveva due biglietti omaggio per la Turandot e che lui si trovi come al solito ai piedi dello scalone dove annullano i ticket che non c’era lacuna relazione adulterina ma solo una frequentazione di amici. In compenso la signora Camoscio poteva andare a vedere i balletti che tanto le piacevano e in compagnia di sue amiche.

Però l’esplosione ha allertato le forze dell’Ordine e soprattutto la Digos. Pensano che i tre commensali dell’ottima trattoria (immaginaria ma che tra gli amici ha suscitato tanto interesse che in molti ne hanno chiesto l’indirizzo) siano cellule terroristiche di Al Qaeda e hanno soprannominato l’operazione Alì Babà.

Finisce che ispettori sempre diversi per non destar sospetti ogni settimana si accodano agli ingegneri Talpa Leone e Polpo sui convogli del metrò diretti a Certosa in Valpolcevera. In trattoria si siedono sempre a un tavolo vicino al loro, mangiano gli stessi piatti e gustano lo stesso vino e continua un’allegra storia di spionaggio che non avrà fine.

Alle indagini si sono offerti di collaborare i ROS senza aver ancora avuto risposta e alla DIGOS la lista dei volontari per il pedinamento è così lunga che si sorteggiano i fortunati di turno.

 

        

                             

 

 

 

 

 

 

                                

                              

 

 

 


   Silvana Canevelli

                          La villa arancione

 

 

Silvana Canevelli è nata a Genova dove si è laureata in Lingue e Letterature straniere moderne. Insegnante e pubblicista, ha al suo attivo traduzioni di volumi di narrativa, romanzi e saggi. Collabora a giornali e riviste tra cui la rivista Tecnologia Trasporti di Mare. Questo suo libro del 2014, pubblicato con Europa Edizioni fa parte della collana ‹‹Edificare Universi›› e poiché Silvana è sta fino all’anno passato a per tre mandati presidente nazionale dei Lyceum italiani e il Lyceum è un sodalizio nato al femminile, cito delle sue pubblicazioni ‹‹Diritto di parola, voci significative di scrittrici liguri››. Un libro dedicato quindi alle donne scrittrici.

Dei suoi testi, le cui storie si svolgono in Liguria, ricordo per le edizioni Frilli ‹‹Di settembre a Camogli›› e ‹‹La casa dei limoni››.

Una volta Silvana mi ha detto: “Sono stata figlia unica e per questo sono felice di aver avuto cinque figli”.

Il romanzo per me che vivo dal 1964 a Nervi è tanto più coinvolgente perché vi è ambientato, in una dimora chiamata villa arancione e descritta come “quella alla curva”. In tempo di guerra era abitata da un console svizzero che, quando la villa fu requisita dai tedeschi (6 aprile 1944), si tasferì a Palma di Maiorca con la famiglia e con la tata dei due figli, madame  Barbette.

Protagonista del libro è Clotilde, una professoressa d’inglese che prima della guerra si era innamorata di Franz un austriaco biondo di 34 anni, venuto per i bagni di mare. Si erano conosciuti nella spiaggia libera in fondo alla passeggiata di Nervi. Scoppia la guerra, Franz deve partire e Clotilde se lo ritrova davanti il 6 aprile 1944, vestito da capitano della Wermacht ed ora in forza nel comando tedesco della villetta arancione. Lui le ha portato in dono un rotolo di un quadro di un famoso impressionista, che poi si rivelò di grande valore. Rinasce la storia d’amore e succede però che nella villa sia rimasta, lasciata  dal console a guardia della  dimora, Tunin una ragazzina molto giovane.

Questa, alla villa, viene violentata  però decide di tenere il nascituro (che diventerà una bellissima ragazza Lidia e il quadro di valore un giorno costituirà la sua "dote", facendo dei lei "figlia della portinaia" - la nuova mansione di Tunin - un’ereditiera). Quando stanno per arrivare gli alleati e  Franz deve andarsene chiede aiuto a Clotilde perché salvi Tunin e la piccola. La professoressa è assalita da gelosia pensando che Lidia possa essere figlia di Franz benché lui le assicuri che vuol bene a Tunin come ad una sorella.

Dopo la guerra la villa viene riaperta dalla seconda moglie del console che vi ritorna con i due figli del precedente matrimonio di lui. Mi fermo qui per l’intreccio che vede anche il ritorno di Franz da un campo di prigionia inglese, ma poi lui viene attratto da alcune vecchie foto in cui individua una feroce criminale di guerra, una donna, e quando sta per portare il tutto alla luce è vittima di un incidente, insomma è fatto fuori.

La frase cult del libro è – secondo me – questa di Keats: “La bellezza è verità, la verità è bellezza”, che Clotilde cita ad una sua allieva adolescente e aggiunge per lei queste parole: “Il mio rifugio, lo sai solo te  e qualcun altro che ora non c’è più”. Il qualcun altro è Franz, sempre nel suo cuore e da lei ricordato ogni giorno.

In ciò ci sembra di leggere un dato autobiografico della professoressa Canevelli, vedova da anni ma da sempre impegnata nell’educazione dei figli, dei 10 nipoti e degli allievi,  anche nella scrittura di saggi e libri.

Il pensiero della morte s’insinua sempre nel libro pagina dopo pagina, nel ricordo costante di Clotilde (Silvana)  per chi le è venuto meno e che le manca così tanto.

Un pregio del racconto sono  le osservazioni dei suoi allievi, con la freschezza dei loro anni come quando una ragazzina timida si trova a dover attraversare la piazzetta di Nervi e passare davanti al bar dove ciondolavano ragazzotti: “e qualcuno una volta aveva fischiato, qualcuno aveva ridacchiato”. E alla ragazzina sembrava di dover passare sotto le forche caudine anche se quel bar della piazzetta era Giumin, famoso per i più buoni gelati di Nervi.

Altro grande pregio è la ricostruzione del tempo di guerra con precisione e con episodi inediti o non troppo divulgati. E’ il caso di quando Theresia spiega al fratello Franz  perché ha voluto andar via da Linz dove aveva lavorato come segretaria al castello di Harrtheim,  a trenta chilometri da Mauthausen.

Al castello, un tempo, c’erano locali adibiti ad ospizio per ragazzi handicappati, accuditi da brave Suore della Misericordia. Poi Suore e ragazzi furono trasferiti a Niedernhart e un giorno Theresia vede due pullman accostarsi al portone d’ingresso e riconosce i ragazzi handicappati. Qualche giorno dopo qualcuno passandole vicino dice ridendo: “Un’opera di bontà averli annientati tutti…”

Commenta Theresia: “E’ stato quel giorno che ho capito di non poter più restare là, volevo urlare al mondo quello che stava succedendo, non m’importava se mi ammazzavano…mi sentivo sporca”. Una testimonianza altamente drammatica sul fosco tempo di guerra e poi il racconto si dipana finché Clotilde per render giustizia a Franz che quando fu ucciso era appunto sulle tracce della criminale nazista, riconosciuta nella foto ed allora vivente a Nervi. Riesce a rintracciare la tata del console svizzero  e ad acquisire da lei notizie sul secondo matrimonio di lui. Così potrà far arrestare la mazista con il marito, non appena scesi dall’aereo che li aveva portati a Buenos Aires e dove credevano di essere al sicuro. Vengono ricuperati pure i gioielli sottratti a decine di famiglie ebree.

Un romanzo avvincente anche per la trama complessa, documentata con fatti, che ci presentano una Nervi lontana in un tempo che sembra incredibile possa essere esistito così.

Da rimarcare la dedica del libro perché  Clotilde, alias Silvana che in lei ha messo tanto di sé, sembra voler consegnare come stella polare per l’istruzione dei giovani queste parole da I proverbi di Salomone: “Ascoltate, o figli, l’istruzione del padre. E state attenti ad imparare la sapienza”.

 

                            La Passeggia a Mare di Nervi

Quanto alla bella passeggiata a mare, orgoglio di Nervi, da giornalista ho memoria di quando avendo chiesto informazioni  per un articolo ad un capo della polizia (con ufficio in viale delle Palme), questi mi disse: “Tutte le mattine, alle 11, con alcuni dei miei vado a presidiare la passeggiata (frequentata non da malviventi ma da madri con i passeggini!)”. A Nervi c’è anche un consolato russo e una volta il console si espresse più o meno come il capo della polizia, affermando che a Nervi stava così bene che gli sarebbe dispiaciuto rientrare nella sua madrepatria.

 


 

 

                                                    Jonne Bertola

 

                         Swinging Giulia

 

    

 


 

 


“Bello, proprio bello”, ho detto chiudendo il primo romanzo della giornalista Jonne Bertola, che divide la sua vita tra Milano e Bobbio,  che proprio oggi 13 luglio, festa di San Enrico, nel 1014 è stata proclamata città da  quell’imperatore. E il commento non sembri esagerato: sono abituata a scrivere recensioni perché, negli ultimi 10 anni da giornalista (fino a metà 2013) al Giornale (pagine di Genova) , uscivo ogni volta dalla redazione del capo, Massimiliano Lussana, un ragazzo innamorato del libro e della cultura, con una pila di testi, inviati dai lettori, che tenevo poggiati sulle braccia conserte. Mi arrivavano sotto il mento con cui li tenevo fermi ed ero strepitosamente felice perché nel 1983 avevo iniziato appunto al Giornale il mio giornalismo, sognando allora di scrivere recensioni. Privilegio che mi è stato concesso  agli sgoccioli.

“Bello perché?” chiederà qualcuno, per capire.

Nell’elenco di pregi del libro inizio dal finale che piomba improvviso con la morte di una delle due protagoniste: la nonna Giulia e sua nipote. Nina, la nipote, è orfana di madre, medico volontario in Africa dove aveva preso il virus dell’Ebola  e quindi da lei cresciuta. Il finale è un ultimo colpo di scena. “Un incidente” spezza l’affascinante e ben congegnato racconto con le parole:  “Pezzi di ferro, di stoffa, di gomma, di carne…e poi è tutto buio, non sento più niente, niente”.

Per non togliere al lettore la suspense, non gli svelo chi è a morire delle due protagoniste. Nello sfondo di questo buio improvviso c’è la deflagrazione di un attentato, a Parigi, provocato proprio dall’autista del mini-bus che le stava portando dall’albergo al Festival del Cinema Indipendente  delle Ville Lumière. Dove, con quasi certezza, Nina già quasi di professione regista, un premio l’avrebbe ricevuto.

Come in un fotogramma lo sguardo dell’autista attentatore rivela: “Odio. Rabbia. Follia. Paura.” E sono pupille “drogate”  quelle dell’uomo, che si fa esplodere come un proiettile: uno dei non pochi  momenti che nel recente passato hanno insanguinato la nostra Europa.

“Bello il libro”, perché lo sguardo giornalistico di Giulia - cui Jonne dà tanto di sé -  ripercorre questo passato, così recente da essere attuale, ma anche perché va alle radici, disseminando le pagine di luoghi e personaggi della nostra cultura. Sempre però senza annoiare con quel modo di raccontare che è richiamato da un titolo noto: “L’incredibile leggerezza dell’essere”.

Giulia sembra giocare tra film famosi, libri cult e musiche immortali  in un concetto unico della gran  bellezza raggiunta dai nostri quasi contemporanei. Pensando che la musica è matematica (così m’insegnava una mia lontana insegnante parlandomi di Bach) uno dei personaggi del libro è un matematico che il suo professore di ripetizione (era stata rimandata in questa materia) le fa amare: “lo studente ribelle, incompreso, ingiustamente bocciato Evariste Galois, praticamente il fondatore dell’algebra moderna.

Tra i personaggi non può mancare il regista bobbiese Marco Bellocchio, che in questa città, sovvenzionato dalla Regione, ha dato vita ad una scuola di cinema in concomitanza con un festival che annovera ogni anno nomi importanti. Però l’autrice dice che all’origine il cinema di Bellocchio (tanto coccolato dalla sinistra e dai salotti radical-chic) non la conquistò: quelle scene così buie dei Pugni in tasca le provocavano una sensazione di claustrofobia e non le interessava la denuncia dell’ipocrisia borghese-politica-religiosa.

 

Un inciso (permettete): Dato che i miei nonni abitavano in via IV Novembre, tramite una zia amica della sorella del regista, tanto sapevo fin da bambina di quella famiglia di persone intelligenti, ma segnata da gravi lutti. Per cui nel film, lontano nel tempo, leggevo i turbamenti e il dolore di un giovane che cresce, Marco, davanti a quegli eventi drammatici. Provavo un senso di condivisione, di compassione proprio nel senso “di patire insieme”,  “non di piangere su qualcun altro”. (Una notazione di cronaca: mia madre, molto sensibile, a Genova vide subito il film e le piacque).

 

Giulia dà un giudizio sui film di Bellocchio: “ponevano domande”, anche se s’incanta ben diversamente sul set di Blow Up del 1966 quando il regista Antonioni fa una scenataccia perché vuole che la colonna sonora del film sia come  “il rumore del vento fra gli alberi”, quello che sentivano in quel momento.

Tutti penetranti i giudizi della giornalista su questi personaggi mitici che incontra e di cui dà solo flash, ma che ti entrano negli occhi nel cuore nella mente. Del maestro Muti,  una volta che lo ascolta dal vivo al Teatro Municipale di Piacenza, dice: “portava i giovani musicisti di nota in nota, nel battito di ogni singola nota, singola e nello stesso tempo inseparabile dalle altre”. Da notare anche la sapiente precisione di scrittura e lo definisce “un grandissimo insegnante. Generoso.”

A Bellocchio, nella galleria dei tanti famosi, riserva un posto particolare proprio perché ha fatto amare alla nipote Nina la regia che diventerà la sua strada. Giulia fotografa “un momento di pausa del regista tra gli allievi, in una contrada del centro storico,dove un sole senza scampo si tagliava prepotente la sua pista di luce”: “questi gli fanno ala come i discepoli  intorno a Socrate per le strade di Atene”.

Non manca nel romanzo una grande storia d’amore tra Giulia e lo scozzese Alan che lavorava per il  “mitico” National Geoghraphic e da cui avrà un figlio, reporter di guerra che una volta – molto aspro – la cataloga per le sue cronache mondane come scrittrice di frivolità e da salotto. Figlio critico anche verso il padre in quanto ricercatore di tradizioni.

Invece proprio la tradizione - in senso lato - è un collante tra i suoi genitori.  Giulia ne è amante, pur se non di quella esotica: la cultura, i libri, gli spettacoli, gli attrezzi da lavoro che vedeva utilizzati dal padre e  i cibi buoni e sani che si gustano proprio a Bobbio. Sono due innamorati “uniti e allo stesso tempo meravigliosamente liberi”. Il marito la porta con sé in viaggi lontani, come nel  Capodanno del 1975, quando approdarono tra i primi turisti europei all’isoletta di Bangaram nell’arcipelago delle Laccadive (Oceano indiano).

Per Giulia nel turbinio di luoghi e di viaggi Bobbio, con la sua Abbazia e con l’interesse per il cinema di Nina, diventa un porto.

Ma succede qualcosa di incredibile. Se  a p. 25 troviamo la Torre Branca di Milano (“non più alta del Duomo perché nulla si poteva costruire di più alto” - buona notazione di cultura- ),  la ritroviamo a p.107 come un indizio che farà capire un po’ di più a Nina un mistero, legato al passato di Gulia giovane.

Incredibile il modo con cui Jonne sa incastrare gli avvenimenti: con un salto altrettanto ampio, spaziale e temporale, Giulia ritrova a Bobbio un’infermiera che aveva conosciuto da giovane e di cui sapeva solo il nome Rosa: questa aveva trovato lavoro presso i dottori Ettore e Fede Simonetti, appassionati collezionisti d’arte che, alla morte, non avendo eredi, le avevano lasciato tutta la collezione. Rosa, poi sposata Mazzolini, a sua volta la dona  al Monastero di S. Colombano.

Non a caso la dedica del libro è per Lei, perché al momento della donazione, proprio a Bobbio con l’esposizione nell’Abbazia, le è nata l’idea di questo libro: Bello, confermo, davvero  bello!

 

 

 

 

               


 Velia Galati Tessiore

                     Bambini Killer

 

Per ricordare la lunga attività di Velia, sempre al servizio degli altri nella CRI, mi servo di un mio antico articolo per poi dare spazio con parole sue a questo terribile argomento: bambini che diventano assassini.

 

 

 

 

 

 

Bambini Killer- Insegnanti vilipesi e aggrediti:

due fenomeni, mai conosciuti?

 

Come quei corsi d'acqua sotterranei che scaturiscono d'improvviso, per poi inabissarsi, fino al prossimo deflusso, così il fenomeno dei ”baby killer”, e quello degli insegnanti vilipesi e percossi, sono rimasti ignorati, fintanto che sono esplosi in episodi di inaudita gravità.

E' stato allora sollevato il velo della cattiva coscienza collettiva su quella patologia sociale che è la violenza contro l'inerme, l'indifeso, l'incustodito dalla Società.

Il sipario del silenzio si è sollevato solo su episodi di tale, sconvolgente, drammaticità da farli ritenere eccezionali, sconosciuti, mai visti, come quello dei bambini killer e quello degli Insegnanti insultati, umiliati, malmenati e persino accoltellati, da studenti e da loro Genitori In realtà, era risaputo che, in relazione a fattori di ordine socio-economico e socio-culturale, la condizione dei soggetti in età evolutiva, adolescenziale e pre-adolescenziale, presentasse aspetti di grande e crescente problematicità, se un rilevante numero di minori aveva già un conto aperto con la giustizia. E, poiché il dato numerico vale come indicatore di un diffuso malessere sociale, che non sempre si traduce in comportamenti devianti statisticamente rilevati, è di tutta evidenza che una quota elevata della popolazione minorile vive una situazione gravemente compromessa, e sperimenta


una povertà materiale e immateriale

 


destinata a prolungare i suoi effetti oltre la soglia dell'adolescenza.

La Società ha dovuto rendersi conto che era un mito l'immagine dell'infanzia e dell'adolescenza come l'età dell'innocenza e, semmai, delle innocue marachelle

 

Già nel 1970, lo psicologo svedese Dan Olwens aveva portato alla luce il fenomeno dell'adolescente prevaricatore, violento persecutore di coetanei e di bambini più deboli e indifesi, veri “enfants crible di questi giovani delinquenti.

L'ordinamento giuridico ha oscillato, nei loro confronti, fra criminalizzazione e proposte di fatto assolutorie; ed astratte teorie pedagogiche, psicologiche e psichiatriche hanno affrontato il problema con le armi loro proprie; ma è mancata l'analisi e la valutazione sociologica.

E' prevalsa l'analisi del fenomeno sulla ricerca delle condizioni politiche, culturali e sociologiche che ne avevano permesso, oltre che la nascita, l'impunità e l'aggravamento.

 

Non si possono estrapolare i fenomeni dalla società che li produce, in cui nascono e si

esprimono; ed allora rendiamoci conto di quanto influiscano sui modi di pensare, sugli atteggiamenti, e sui comportamenti degli adolescenti, e dei bambini, la Televisione, il Cinema, gli spot pubblicitari, ed anche la Politica, nelle sue manifestazioni faziose, settarie, ed aggressive.

 

Non si tratta di individuare le cause del fenomeno nel permissivismo e nel lassismo della famiglia e della scuola, che, certamente, hanno spesso considerato atteggiamenti e comportamenti arroganti ed insolenti come manifestazioni di giovanile vivacità; si tratta, invece, dell'affermarsi di una cultura di eccessiva tolleranza, legittimatrice del disimpegno morale degli adulti, sostenuta, anche, da una stampa alla ricerca dello scoop, della notizia sensazionale, banalizzata, talvolta, da una irrilevanza burlesca, come quella che, nei lontani anni '70, attribuì a giovani teppisti l'appellativo, benevolo e ammiccante, di “piccole pesti”. E “piccole pesti furono, per la stampa, i tre giovani protagonisti di una rapina di 33 milioni e di un tentato omicidio, “assolti” perché “hanno visto troppi films”, come avevano concluso i carabinieri. (settembre 1997- Secolo XIX)-

E “Pierino la peste era il giovane che, nella notte del 22 novembre del '97, aveva lasciato un'auto sui binari della ferrovia di Sestri, ”non ha la patente, ma sa come forzare le serrature di una macchina e “si diverte a provocare incidenti stradali”. Fortunatamente, l'intervento della Polizia riuscì ad evitare un disastro, fermando il convoglio proveniente da Genova.

Nel 1997, si fece conoscere la “gang degli autoscontri”, della quale faceva parte il già noto ”Pierino la peste che, come ammise alla Polizia, aveva rischiato di investire un poliziotto che voleva impedirgli di rubare un'auto, e del quale, con altri amici, ”per gioco”, aveva rubato e distrutto la macchina di servizio.

 

Bambini arruolati dalla Mafia, attivi nel traffico di droga: don Andrea Gallo: ”non volevo crederci, ma è la realtà (secolo XIX-17-gennaio 1997)

Con maggiore o minore tossicità, episodi di criminalità minorile si sono presentati su tutto il territorio nazionale: quelli che un tempo erano “bravate hanno assunto forme criminose. Non si tratta di distinguere, per catalogare, le tipologie dei baby-killer, non si tratta solo di analizzare una mentalità dissociativa, o, comunque patologica, ma, piuttosto, di esplorare gli ambienti disfunzionali, di valutare i livelli culturali in cui è germinato l'evento scellerato che, peraltro, si inserisce nel più generale svilimento della funzione pubblica: le leggi per combattere la violenza in tutte le sue manifestazioni ci sono, ma non vengono applicate. E' una sensibilità sociale che va ricostruita sulle macerie morali di questo tempo, che sono lo specchio dell'edificazione morale derivata da serie televisive quali “Gomorra

Ad un diverso ramo del bullismo appartenne, ancora negli ani '70, il “Programma finalizzato alla classifica degli Insegnanti più strapazzati , programma della genovese “radio libera di Albaro”, che così fu pubblicizzato: “Adesso c'è anche la “rivincita degli studenti ”, l'”hit parade dell'insulto al Professore. Dalle 21 alle 21,30, uno studente può vendicarsi di un voto non gradito, di un rimprovero, di una semplice osservazione, o, addirittura di un consiglio, come quello, ad un giovane scooterista di indossare il casco. Coperto dall'anonimato, l'ardimentoso denigratore addita al pubblico ludibrio, con nome e cognome, il “colpevole”, imputandogli ignoranza, impreparazione, finta democrazia, e ridicolizzandone l'aspetto fisico: sei goffo, sciancato, rantego, nasone, pelato, nano, ed altre accuse oscene, se, del caso, volte al femminile.

“I Professori nell'occhio del ciclone- commenta un giornalista- mentre i precari scioperano da anni inutilmente... a Genova qualcuno ha inventato il gioco perfido che gira il coltello in una ferita storica della categoria, la paura del ridicolo ”

Indubbiamente, da allora, non solo nulla è cambiato, ma il fenomeno si è inacerbito, se tutti i mezzi di comunicazione di massa riportano episodi di ingiurie ed anche di aggressioni fisiche compiute contro insegnanti da parte di studenti e, persino, dei loro genitori. Sono cambiati soltanto gli strumenti dell'offesa, dell'ingiuria e della calunnia, che il progresso tecnologico ha reso più  raffinati, più affliggenti.

Episodi di umiliazioni,e aggressioni verbali e fisiche inflitte a Insegnanti affollano oggi tutti i mezzi di comunicazione, anche con la possibilità di prenderne cognizione visiva.

Nulla è cambiato, perché, oggi come allora, è venuto a mancare il giusto riconoscimento sociale, che è alla base del rispetto e della considerazione del ruolo; ed è paradossale che i genitori, i quali dovrebbero interagire con i docenti in un comune progetto educativo dei figli, si arroghino il diritto e il compito di controllori, di giudici, e, infine, di giustizieri; fino alle punizioni corporali.

Un alunno di prima media si diverte a lanciare chewing-gum sui capelli dell'insegnante; un diciassettenne ha sfregiato con un coltello, il volto della sua Professoressa, viene accoltellato

Un docente di Caserta e, sempre nel casertano, un altro Insegnante è stato preso a pugni e calci. A Treviso un Professore è stato picchiato da Genitori, a Foggia un vice Preside è stato aggredito, stessa sorte per un altro, ad Avola. La persecuzione degli Insegnanti in alcune zone di Italia è in mano alla Mafia, è in mano a piccoli mafiosi; e riguarda questi “cattivi ragazzi” l’”Operazione hod guys”, i ragazzi dediti al ricatto, all’estorsione, agli incendi, più vicini ai Kamikaze, ai “leoncini” dell’ISIS che ai muschilli degli anni 80.

Se gli Insegnanti si sono rivolti al Capo dello Stato per ottenere una legge che tuteli la loro integrità fisica e la dignità del loro ruolo, se il Capo dello Stato ha ricevuto ed insignito di una benemerenza un’insegnante che era stata sfregiata con una coltellata nel volto da uno studente, mille e mille altri vivono esperienze di estrema gravità.

Non è estraneo a questo fenomeno di minorile delinquenza l’aver tolto alla scuola il meccanismo di selezione degli alunni, dai sette ai sedici anni, lasciandole, tuttavia, il dovere e la responsabilità dell’istruzione e dell’educazione. E non è estraneo il mancato ricambio generazionale del Corpo Docenti, che è il più anziano fra quelli europei. E non è estraneo, anzi, ad esso pertinente, la famiglia; a fronte di episodi di così grave maleducazione, ci si domanda: “ma da che famiglia provengono questi ragazzi che ci lasciano esterrefatti con le loro scelleratezze?

Con la diffusione dei filmati mediante Whats’s  App, ad opera degli stessi autori degli atti delinquenziali, abbiamo assistito, per così dire, in diretta alla “bravata” dello studente lucchese che, con l’accompagnamento di triviali risate dei compagni di classe, incalza il Professore con il casco da moto, tenta di strappargli il registro e così lo apostrofa: “Professore, non mi faccia incazzare, non mi faccia incazzare”; rovescia sulla cattedra il cestino dei rifiuti ed ordina: “in ginocchio e mi metta sei, qui comando io. Capito chi comanda?”

Stupefacente la non reazione dell’Insegnante che minimizza i fatti, non li denuncia, quasi li giustifica. Nessuna obiezione alle violenze fisiche e verbali del suo alunno. Non Parliamo di “sindrome di Stoccolma”, certo che no, però il comportamento di questo insegnante è quello di resa incondizionata di chi si sente incapace di reagire ed anche protetto dalla Società:

Giorno dopo giorno, di Regione in Regione, si compiono atti ingiuriosi, arroganti contro i docenti, da parte degli studenti, talvolta affiancati dalla violenza dei loro genitori. E’ stata dunque abbandonata e sconfessata quell’alleanza fra Scuola e Famiglia, fra insegnati e genitori, che, posta alla base di un processo di ammodernamento, avrebbe dovuto portare la Scuola italiana ai livelli europei.

L’Istituto inglese “The Economist Intellligence” ha stabilito una classifica mondiale delle Scuole e la posizione della Scuola Italiana è allarmante! E se gli indicatori di valutazione, nel rapporto 2017 dell’OCSE comprendono la considerazione del ruolo dell’Insegnante e la “Comunità”, cioè quanto Genitori, Insegnanti ed Alunni collaborino insieme, non ci si può stupire che l’Italia sia la penultima nella graduatoria.

La mancanza di attrattiva (il discredito della professione e stipendi assai inferiori alla media europea) ha impedito il ricambio generazionale , così che il Corpo Docenti è il più anziano rispetto a tutti gli altri, secondo la relazione dell’OCSE. Insomma, l’insegnamento è considerato un ripiego per chi non ha di meglio.

Non la pensa così il Presidente di “Pearson italiana” che scrive sul Corriere della Sera: “fare  il Professore deve essere un privilegio per chi ha la laurea, non meno prestigioso di altre professioni, come avvocato, ingegnere”.

 

                              Velia Galati

(Dottoressa-Psicologa)

Medaglia d’oro al merito della Sanità Pubblica

 

 

                           


VITO MOLINARI

 

             ‹‹I COMICI da Petrolini a Villaggio››

Conferenz del  29 marzo 2019 alla Berio di Genova

                 per la Dante Alighieri                       FRANCESCO DE NICOLA,

presidente della Dante da tanti anni, è sempre     ideatore d’innovative attività e conferenze

 

 Il 4 gennaio 1954 Vito Molinari ha diretto la trasmissione inaugurale della tv italiana. Da allora ha realizzato, come regista e autore, più di duemila trasmissioni televisive di vari generi, tra prosa, rivista, operetta, sceneggiati e balletti; ha diretto cinebox (antenati della attuali videoclip) e 500 caroselli. In teatro ha diretto molti spettacoli di prosa e di rivista; ha realizzato una collana di dischi sull’operetta (1960) e una storia discografica dell’’operetta. E’ stato regista di famosi musicals, ha diretto più di 60 operette per il Festival di Trieste e per gli Enti Lirici di Napoli, Cagliari, Roma, Torino. Ha scritto e diretto spettacoli teatrali su Petro, Campanile, Marchesi e Mosca; sulle canzoni satiriche, suo cantautori francesi, su Totò; nel 2009 ha realizzato 40 dvd su Carosello per il <<Corriere della Sera>> e la <<Gazzetta dello Sport>>.

Libri:

Vito Molinari e Mauro Manciotti, TuttoGovi, Genova, Marietti, 1990;

Vito Molinari, La Rita Smeralda, Sestri Levante, Gammarò, 2017;

Vito Molinari, Le mie grandi soubrettes, Roma, Gremese, 2017;

Vito Molinari, I miei grandi comici, ivi, 2018;

Leandro Castellani, Umorismo e comicità, Roma, Studium, 2010;

Ghigo De Chiara, Ettore Petrolini, Bologna, Cappelli, 1959;

Mauro Macario, Macario, un comico caduto dalla luna, Milano, Castaldi, 1998;

Valentina Patavina e Paolo Villaggio, L’epopea di una maschera: Paolo Villaggio, Torino, Einaudi, 2009